giovedì 9 febbraio 2017

Maria Antonietta. Cap. V

Cap. V


Maria Antonietta


Con la lentezza di una tartaruga, il convoglio di carrozze che trasportava la delfina e il suo seguito procedette verso ovest, viaggiando in media fra otto e dieci ore al giorno e sostando, per la notte, presso castelli o monasteri in grado di offrire ospitalità, oppure in città di provincia ove le locande potevano accogliere – a fatica, in verità – le centinaia di persone che componevano la scorta di Antonietta e i loro cavalieri. Alla fine della prima settimana il viaggio era divenuto tedioso; dopo due settimane e mezzo, quando il convoglio arrivò all'abbazia di Schutten, ultima stazione di tappa prima del confine fra l'impero d'Austria e il regno di Francia, tutti, dalle dame d'onore ai segretari, ai lacché e ai cuochi, erano esausti. La delfina, invece, aveva sopportato bene le fatiche del viaggio: le sue guance erano d'un sano colore rosato, come sempre, e le sue condizioni di spirito erano eccellenti.

Il documento per l'affidamento ufficiale di Antonietta al re Luigi XV, secondo il conte di Noailles, era insultante nei confronti del suo sovrano: in essa si nominavano Maria Teresa e suo figlio Giuseppe re dell'Austria vera e propria, prima dell'augusto Luigi XV re di Francia. Un affronto del genere proclamò Noailles, non poteva essere tollerato. Il suo collega austriaco Storhemberg gli fece notare, cortesemente, che citare per primo il nome del re di Francia sarebbe stato offensivo per le loro maestà imperiali. I due diplomatici rimasero a lungo sulle loro posizioni, in un vicolo cieco e non era la prima volta. Infine, per evitare un conflitto il documento fu preparato in due versioni, una per ciascuna delle corti.

Su un terreno neutrale – un isola del Reno – essa entrò in un edificio che era stato costruito appositamente per la cerimonia. Indossando un abito anch'esso confezionato appositamente (ma portando ancora i suoi gioielli e i suoi ornamenti austriaci), raggiunse la salle ed remise e prese posto dinanzi a u tavolo che simboleggiava la linea di confine fra l'impero asburgico e il regno di Francia. Da una parte del tavolo erano schierati, in piedi, i dignitari austriaci del suo seguito, dall'altra il puntiglioso conte di Noailles, con due assistenti. Noailles pronunciò un discorso di benvenuto, poi fu data lettura dell'atto in base al quale Antonietta assumeva la nazionalità francese. 

Negli arazzi della sala erano rappresentate le orrende scene in cui Medea, sconvolta dal furore per il tradimento di Giasone, fa scempio dei due figli che ha avuto da lui e poi si uccide. Una fanciulla più suggestionabile di Antonietta sarebbe forse rabbrividita alla vista di quelle scene, e le avrebbe ritenute male auguranti. E' invece molto probabile che Antonietta, conformemente alla sua indole, fosse più incuriosita che allarmata; e, magari, che le venisse in mente che colui che aveva scelto gli arazzi, chiunque fosse, voleva manifestare un'opinione assai malevola sull'alleanza fra i Borbone e gli Asburrgo.

La delfina era ora affidata alla custodia del conte di Noailles, e alla cognata di questi, una donna molto formalista e dura come la selce, la cui reazione immediata al bacio, forse un po' infantile, con cui Antonietta l'aveva accolta fu di ritrarsi bruscamente, indignata per quello che giudicava un atto sconveniente. L'altezzosa dama era sempre invariabilmente irrigidita in un atteggiamento protocollare, e pretendeva che la sua nuova signora tenesse per sé le effusioni sentimentali. La sua signora precedente, la defunta Maria Leczinska, consorte di Luigi XV, era stata una donna schiva e riservata, e quindi facile da servire. 

Una settimana dopo, la sera del 14 maggio, Antonietta si incontrò finalmente con il delfino Luigi sul Pont de Berne, ai margini della foresta di Compiègne. Il luogo era stato scelto con la speranza di mettere il delfino quanto più possibile a suo agio in quelle propaggini del grande bosco di querce e di castagni che era il suo rifugio preferito. Luigi, tuttavia, era estremamente imbarazzato a disagio nella tenuta riccamente ornata e merlettata che era stato costretto a indossare; tanto diversa dagli indumenti grossolani cui era abituato, e innervosito dalla presenza dello sprezzante avo Luigi XV e dal fatto di, trovarsi al centro dell'attenzione. 

La sua sposa era piccolina, bionda e graziosa quanto avevano detto i ministri di suo nonno. Era anche gentile e amabile, e gli rivolse lo sguardo con un espressione così innocente e cordiale che Luigi si calmò un poco, anche se mantenne la sua reticenza.

Antonietta fissò con un certo stupore l'adolescente massiccio e goffo che sarebbe stato suo marito e provò pena per lui. Vide subito quanto era timido e non si lasciò scoraggiare dal suo estremo distacco e dal suo modo rozzo di parlare. Luigi suscitava in lei simpatia, il timore che le si leggeva negli occhi la commuoveva. In realtà, pensò, non era brutto, e sarebbe parso assai più presentabile se avesse tenuto la schiena diritta e non avesse camminato strascicando i piedi.

Antonietta fece una profondissima riverenza dinanzi al re, che piegò le labbra arcuate in un sorriso e la aiutò a rilassarsi. Con i suoi penetranti occhi neri, il naso aquilino e il portamento maestoso, Luigi XV era ancora un gran bell'uomo. Ad Antonietta dovette sembrare un vegliardo; ma altri – inglesi in visita alla corte di Francia – trovarono in lui, nonostante l'età avanzata e le spalle spioventi, <<i resi di una virile prestanza>>.

Luigi aveva regnato per oltre cinquant'anni, ma come un insipido prestanome. Choiseul, che lo conosceva meglio di chiunque altro, confidò nelle sue memorie, pubblicate molti anni dopo la morte del re, di aver udito il sovrano definirsi <<l'incoerenza personificata>>, aggiungendo che non sarebbe rimasto sorpreso se avesse scoperto che era demente. Guastato dalla gola e dalle troppe indulgenze, sul trono dall'età di cinque anni, il nipote del re Sole Luigi XIV non sapeva in realtà chi o cosa ci fosse sotto il suo guscio di regalità; e da tempo non gli importava più di saperlo. Sapeva invece, perché glielo avevano insegnato i suoi precettori che, essendo il re, era completamente diverso dagli uomini ordinari. Era convinto di essere un <<vaso d'elezione>> dell'Onnipotente, investito dalla divina missione di proteggere la religione cattolica. Era inoltre convinto ( e questa convinzione non contribuiva certamente a rafforzare il suo carattere) che, essendo egli una <<diretta emanazione della provvidenza>>, Dio non l'avrebbe punito per i suoi peccati mandandolo all'inferno, anche se quei peccati fossero stati molto gravi. 

<<Il carattere del re>> scrisse Choiseul, <<somigliava a molle cera su cui si sarebbero potuti delineare a volta a volta gli oggetti più dissimili>>. L'estrema malleabilità di Luigi XV sarebbe stata inquietante in un uomo comune; in un sovrano era disastrosa. Esposto al pericolo di diventare una docile preda delle fazioni, il re, fortunatamente, aveva scelto di appoggiarsi a Choiseul, anche se Choiseul, come era più che naturale, era egli stesso a capo di una fazione. Per assolvere anche i compiti che sarebbero spettati al sovrano, Choiseul lavorava stabilmente i una stanzetta del palazzo di Versailles adiacente alla camera da letto di Luigi XV. Qualunque cosa Choiseul proponesse, il re dava il suo assenso, senza quasi scomodarsi a leggere i documenti prima di firmarli. 


Luigi XV


Oltre che incoerente e vacuo, Luigi XV era anche privo di meriti concreti, a meno che la bravura nella caccia al cervo, e nella preparazione del caffè potesse essere considerata un merito. Le persone che andavano a Versailles per assistere ai suoi pasti notavano la destrezza con cui egli, con un colpo di forchetta, decapitava un uovo al guscio e plaudivano all'impresa. Ma certamente il re non era stato un successo né come marito né come padre. Aveva ignorato la sua consorte la regina Maria, quando era in vita; e la regina, per riempire in qualche modo la propria esistenza si era ridotta a cucire trapunte a disegnare e a trascorrere lunghe, tediose serate con le sue dame d'onore, mentre suo marito passava da un'amante all'altra.


Madame Du Barry

Aveva litigato con il defunto delfino Luigi, le cui opinioni sul ruolo della monarchia erano nettamente diverse dalle sue, e guardava con disprezzo le quattro figlie non sposate, anzi le prendeva in giro, le metteva in ridicolo e le trattava come nullità. Disprezzava anche il nipote ed erede, non solo a causa della sua stravaganza, ma anche perché non aveva niente di virile, mentre Luigi XV, se non altro, virile era.


Luigi XVI


Per il tratto di strada, attraverso la foresta, fino al castello di Compiègne, Antonietta prese posto, con il re e il delfino, nella grande carrozza reale. Nel castello si incontrò con altri nuovi parenti, uno stuolo di principi e principesse, duchi e duchesse i cui nomi e titoli nobiliari le sfuggirono probabilmente dalla memoria appena detti, soprattutto perché erano tanti, e tanti furono anche gli altri signori e dame della corte che le furono presentati. Inoltre, mancavano appena due giorni al matrimonio, e molti dettagli dell'ultimo minuto richiedevano attenzione. Dopo il pranzo – e c'è da domandarsi che genere di pranzo fosse, con la graziosa e amabile nuova venuta in mezzo a una dozzina e più di sconosciuti molto inclini a emettere giudizi, mentre il suo timidissimo sposo a stento alzava gli occhi verso di lei, che invece si comportava in modo notevolmente meno formale dei francesi – Antonietta venne accompagnata nella sua camera, ove ricevette il maestro del cerimoniale del re. Il dignitario le mostrò dodici fedi nunziali, che essa provò una dopo l'altra finché ne trovò una che le stava al dito perfettamente; e questa fu riposta in attesa della cerimonia. 

Molto più grane del palazzo di Schönbrunn, quello di Versailles era anche assai più vecchio, e il giorno in cui Antonietta lo vide per la prima volta appariva malandato e maltenuto Le fontane erano in pezzi, le loro vasche sporche e piene di rifiuti, anche il canale era sporco e intasato dal fango. Nei giardini, molte statue erano cadute; servitori e giardinieri negligenti le avevano lasciate in terra.

Nelle strade che portavano al palazzo non erano state installate lanterne, e quando la vettura di Antonietta passò la cancellata non fu accolta né da una banda musicale con pifferi e tamburi né da un reparto d'onore di guardie svizzere o di soldati  di un altro corpo militare. Le persone che, come sempre, andavano e venivano per il grande cortile anteriore guardarono con molta curiosità la carrozza mentre attraversava  lo spiazzo selciato per fermarsi; infine, ai piedi dello scalone che portava all'appartamento della regina. 

I non invitati alla cerimonia nunziale premettero con tanta ostinazione per accedere al lunghissimo corridoio chiamato Sala degli specchi che le guardie incaricate di mantenere l'ordine non riuscirono a impedir loro di entrare. Nel corridoio erano state allestite per l'occasione diverse file di sedie, ma queste, fin dalle prime ore del mattino, erano state occupate da signori e dame di corte nei loro abiti più splendidi, e gli altri spettatori furono costretti a cercarsi ogni spazio possibile, schiacciandosi contro le balaustrate provvisorie e premendo sugli ospiti ufficiali. 

All'una del pomeriggio il corteo nunziale partì dagli appartamenti di stato e cominciò a snodarsi per i corridoi e per le sale, diretto verso la cappella. Lo apriva il gran maestro del cerimoniale, immediatamente seguito dai due sposi. Luigi Augusto e Antonietta, che procedevano mano nella mano. Antonietta era sorridente e tranquilla; la sua svelta figurina scintillava di diamanti. Un'invitata inglese, la duchessa di Northumberland, rimase stupita dalla sua bassa statura; ebbe l'impressione che Antonietta non avesse più di dodici anni. Criticò anche il suo abito nunziale. <<Il corpetto dell'abito>>, scrisse sul suo diario, <<era troppo piccolo e lasciava completamente visibile la larga fascia della sottoveste merlettata, che aveva un brutto effetto tra due fasce ancora più larghe di diamanti. La sposa era letteralmente carica di gioielli>>. Il delfino che, come al solito, era terribilmente nervoso, indossava un vestito abbagliante, tutto intessuto d'oro e coperto di gemme e decorazioni. 

Dietro la sposa e lo sposo procedevano alcuni paggi, che reggevano il lungo strascico di broccato dell'abito di Antonietta; venivano poi la custode  tutelare del delfino, contessa di Nailles, i principi reali – il corpulento duca d'Orléans, il nevrastenico duca Panthièvre, i principi di Conde e di Conti, i duchi di Chartres e di Borbone e il conte de le Marche – e i due fratelli minori del delfino, i conti di Provenza e d'Artois. Dopo questi avanzava il re, che sembrava assorto; lo seguivano la nipotina decenne, principessa Clotilde, e le figlie non sposate Adelaide, Vittoria e Sofia, zie del delfino. Un gruppo di dame di corte ingioiellate  chiudeva il corteo, che sfilò come in parata, per tutta la lunghezza della Sala degli specchi, settantacinque metri, sotto gli imponenti lampadari, per raggiungere infine la soglia della cappella. 

Nel luogo di culto, tutti gli invitati si alzarono in piedi mentre Luigi e Antonietta procedevano verso l'altare e poi si inginocchiavano sui cuscini disposti sul pavimento per ripetere il giuramento di fedeltà dinanzi all'arcivescovo di Reims. Il delfino divenne rosso come un peperone quando per lui venne il momento di infilare la fede nunziale al dito di Antonietta, e per tutta la durata della messa si agitò continuamente. Quindi gli sposi portarono a termine le formalità, firmando il registro. Adesso Antonietta era, a tutti gli effetti la delfina di Francia.

Pur essendo ancora molto acerba ed estremamente inesperta, essa era, almeno in teoria, la donna più potente della corte; e in una corte in cui gli uomini della famiglia reale erano fiacchi e apatici ciò la rendeva doppiamente potente. Il suo arrivo sconvolgeva lo status quo, che era stato già gravemente alterato l'anno prima, quando il re aveva presentato alla corte Madame Du Barry, la sua nuova amante, una donna formosa, esuberante e sguaiata. La Du Barry dominava il sovrano e, attraverso il sovrano, faceva del suo meglio per dominare anche la corte. Antonietta, tuttavia, era in grado di controllare il delfino, che avrebbe potuto accedere al trono in qualsiasi momento. Il suo era il potere in ascesa, e gli smaliziati cortigiani, incalliti da anni di intrighi, ritenevano che non avrebbe indugiato a formare e consolidare una propria fazione. Sospettavano di lei, e in sua presenza si comportavano con grande cautela, dietro le sue spalle molti, fra loro, facevano tutto il possibile per ostacolarla. 

La Francia del 1770 era però un paese in disordine, con un vuoto al centro del potere. Secondo il conte Mercy, ambasciatore d'Austria a Parigi <<è in tale decadenza che sarebbe impossibile rigenerarla, se non a opera di un successore dell'attuale sovrano che, con le sue doti e i suoi talenti, ponesse riparo all'estremo disordine del regno>>. Il delfino era tuttavia privo delle doti e dei talenti necessari. <<Questo principe, a giudicare dall'espressione del volto e dal modo in cui parla, mostra un'intelligenza estremamente limitata e una grande goffaggine>>.

Nel pomeriggio del giorno delle nozze Antonietta si installò nell'appartamento che le era stato assegnato, un appartamento non grande, ma squisitamente arredato, le cui pareti erano decorate con affreschi e bassorilievi. Oltre alla camera da letto e al bagno, c'erano due salotti, una biblioteca abbastanza vasta, due anticamere e una  cappellina privata. Fu in quell'appartamento che la delfina ricevette i dignitari della sua casa civile. Dinanzi a lei si inginocchiarono e pronunciarono il giuramento di fedeltà la prima dama d'onore, il gentiluomo d'onore, il primo elemosiniere, gli intendenti, il maggiardomo, il primo scudiere e i revisori dei conti. Tutti costoro avevano a loro volta ricevuto, in precedenza, il giuramento di fedeltà di numerosissimi subalterni.

Fra questi, poco meno di duecento – dai cuochi ai camerieri dai mescitori di vino ai piccoli sguatteri – erano addetti alla preparazione di cibi e delle bevande e al servizio a tavola. Un altro centinaio di dignitari minori e di domestici provvedeva a soddisfare. Tutte le necessità personali di Antonietta, dal parrucchiere che era addetto al bagno, ai due farmacisti, ai diciannove valets de chambre. Antonietta aveva inoltre, alle sue dipendenze dodici nobildonne, incaricate di assisterla e di tenerle compagnia, quattordici cameriere che avevano il compito di servirla, due predicatori; cinque cappellani e un altro elemosiniere (tutti questi ecclesiastici rendevano superfluo l'abate Vermond), sei scudieri, nove uscieri, due medici e quattro chirurghi, un maestro di scherma, e due mulattieri.

Il re, il delfino e la sua consorte si esibirono nuovamente in pubblico, stavolta giocando a cavagnole intorno a un tavolino dell'appartamento reale: a seimila invitati era stato concesso il privilegio di assistere alla partita. All'ora appropriata, nel teatro d'opera il cui allestimento era stato portato a termine – un teatro squisitamente adorno, le cui modanature e balconate erano state scolpite, dipinte e dorate da un gran numero di eccellenti artisti – la famiglia reale cenò, mentre la pioggia tambureggiava sul tetto e rombavano i tuoni. Gli invitati, che avevano sperato di vedere, nella tarda serata, grandiosi fuochi d'artificio, provavano un gran disappunto quando la pioggia impose l'annullamento dello spettacolo, e se ne andarono, sentendosi in qualche modo truffati. Rimasero abbastanza a lungo, tuttavia, per assistere all'evento conclusero di quella giornata di festa, la benedizione del letto nunziale da parte dell'arcivescovo di Reims. Il re cosegnò al nipote la sua camicia da notte e la duchessa di Chartres aiutò Antonietta a prepararsi. 

Antonietta si ritirava nel suo appartamento, Luigi si accostava al letto, ci si sdraiava e si metteva a dormire senza toccarla. Pur essendo priva di esperienza, Antonietta non era all'oscuro delle cose del sesso. Sua madre l'aveva informata su ciò che doveva aspettarsi come moglie, ed essa sapeva a quali sofferenze era andata incontro sua sorella Carolina nella sua angosciosa botte di nozze nei primi giorni d'incubo del suo matrimonio. C'era qualcosa che non andava affatto, e presto divenne materia di pettegolezzo generale a corte. I paggi e le cameriere, ogni mattina, scrutavano la biancheria da letto della delfina, in cerca di testimonianze del fatto che questa non era più vergine; non trovandone, cominciarono a passare la notizia a chiunque fosse disposto a pagare per averla; e quelli disposti a pagare erano molti. Fra costoro c'era Mercy il navigatissimo ambasciatore di Maria Teresa, il quale aveva promesso all'imperatrice che l'avrebbe tenuta informata su tutto ciò che avveniva alla corte di Luigi XV. Mercy si affrettò a riferire circa la strana situazione: mandando il messaggio con uno speciale corriere che raggiunse Vienna nel massimo segreto. La corrispondenza riservata fra l'imperatore e Mercy, che cominciò nei giorni immediatamente successivi al matrimonio di Antonietta, fu un prodigio di organizzazione per quei tempi. In un'epoca in cui c'erano spie dappertutto e tutte le lettere spedite attraverso i normali canali venivano regolarmente intercettate e aperte, non si era mai sentito parlare di uno scambio di informatori e di istruzioni in entrambi i sensi sicuramente segreto fra un diplomatico e il suo sovrano, per giunta residenti in città tanto lontane. Luigi XV e i suoi ministri avevano un esercito di informatori, sparsi per tutta l'Europa, il cui solo scopo era proprio quello di mandare all'aria qualsiasi sistema di comunicazioni clandestine. Eppure i giovani corrieri austriaci e ungheresi reclutati per assicurare il recapito dei dettagliati dispacci di Mercy a Maria Teresa e le istruzioni o richieste dell'imperatrice al suo ambasciatore riuscirono, giocando d'astuzia, a eludere per anni quegli informatori, mettendo il conte Mercy in grado di affidare alla carta franche osservazioni  che egli non avrebbe mai osato fare altrimenti.

I primi rapporti di Mercy alla sua sovrana furono deprimenti. Il delfino, egli scriveva, era <<ripiombato n ella sgradevole condizione d'animo alla quale è un incline per natura. Fin da quando si sono incontrati per la prima volta, egli non ha dato alcun segno di predilezione per la delfina, o di desiderio di compiacerla, né in pubblico né in privato>>. Maria Teresa sapeva leggere tra le righe. Il suo impacciato e stravagante genero, del quale la gente diceva che <<era molto simile nella figura a un eunuco>>, era forse un eunuco anche di fatto.

La situazione preoccupava ormai tutti e in modo grave: l'imperatore d'Austria, il suo ambasciatore a Parigi, il re di Francia e i suoi ministri. A Versailles furono consultati i medici di corte. Niente di preoccupante, dissero. Il delfino non aveva ancora raggiunto i sedici anni. Non era ancora maturo. 

In realtà lo sventurato Luigi era affetto da fimosi, una deformazione del prepuzio che rendeva dolorosa la retrazione e perciò impediva l'erezione. Il delfino non era impotente: la verità era che tentare di fare all'amore gli costava una sofferenza atroce. Anche una blanda eccitazione sessuale gli causava un forte dolore e suscitava in lui la paura di un dolore più intenso. Ma ciò che più lo faceva soffrire era l'idea di sottoporre le sue tenere carni ai crudeli bisturi dei medici di corte. Luigi poteva avere o non avere gli smodati appetiti sessuali di un'adolescente – anche se qualcuno potrebbe dedurre che li aveva, che li sublimasse rimpinzandosi di cibo, con tanta frequenza e tanta voracità che spesso stava male di stomaco, ma è chiaro che per evitare sofferenze egli aveva deciso di negarsi ogni gratificazione erotica.

Luigi, comunque, continuò a star lontano da  Antonietta e a ignorarla nelle occasioni in cui l'etichetta di corte li costringeva a stare insieme. Insieme, tuttavia, restavano soli molto raramente. Erano sempre circondati da servitori signori e dame di corte, dignitari e dai sempre presenti osservatori <<casuali>> che affollavano i corridoi del palazzo, avidi di assistere allo spettacolo offerto dai reali, avidi di scrutare il minimo indizio di variazione nell'atteggiamento del delfino verso la consorte. Il matrimonio non consumato fra Luigi e Antonietta era oggetto di conversazione universale.

I pettegolezzi, le occhiate insistenti e curiose. I commenti sussurrati, i sorrisetti maligni – mettevano certamente in imbarazzo i due giovanissimi sposi. Antonietta manteneva esteriormente un atteggiamento disgustoso e sicuro di sé, ma nei momenti in cui dimenticava di controllarsi appariva scura in volto e pensierosa: <<Sotto la sua sicurezza intravedo momenti di tristezza>>, scrisse a Kaunitz l'abate Vermond, aggiungendo: <<Il mio cuore è lacerato da tutto questo>>.

Il calore e la bontà d'animo in cui Antonietta aveva accolto il suo goffo marito avevano fatto breccia nella ritrosia di Luigi, il quale cominciava finalmente a parlarle, a cercarla, perfino a confidare in lei. Quando essa passava per l'appartamento del delfino, egli le faceva capire a cenni che desiderava  parlarle, poi la accompagnava nell'appartamento di lei, dove era libero dalla tutela dei suoi importuni gentiluomini di corte e del suo istitutore, il duca de la Vauguyon, il quale si faceva un dovere di ascoltare tutto ciò che il delfino diceva.

Una domenica Luigi affrontò egli stesso l''argomento di cui tutti gli altri parlavano fin dalla prima notte di nozze. Secondo quanto riferì Mercy scrivendo a Maria Teresa una settimana dopo, il delfino disse ad Antonietta che si rendeva conto dell'aspetto sensuale del matrimonio, ma che opera deciso di rimandare la completa intimità a un momento più appropriato, presumibilmente al giorno del suo sedicesimo compleanno, che sarebbe stato il 23 agosto. Quel giorno la corte darebbe stata a Compiègne, e lì, assicurò Luigi ad Antonietta, egli sarebbe vissuto con lei <<in tutta l'intimità richiesta dalla loro unione>>.

Il 23 agosto arrivò e passo, e Antonietta, era ancora vergine. Se Luigi aveva sperato di superare l'impedimento causato dalla fimosi aveva perso coraggio. Ancora una volta i seminatori di pettegolezzi si misero all'opera e il delfino mortificato, ricominciò a rifugiarsi nella foresta per le sue partite di caccia, da cui rientrava molte ore dopo, con la testa che girava, barcollando, tanto esausto che faticava a reggersi in piedi.

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