sabato 12 novembre 2016

Maria Atonietta. cap IV part. 4



Maria Antonietta


Il 15 aprile Durfort, che era and a to a Parigi, fece ritorno a Vienna alla testa di in lunghissima corteo di carrozze, con oltre cento servitori, paggi e palafreneri. In rappresentanza di Luigi XV, veniva, col sul autorevole seguito di dignitari, a prendere la promessa sposa del delfino. Fra le vettire c'erano due grandissime berline da viaggio, fabbricate per apposita commissione da in carrozziere e sellaio parigino ed eqipaggiate in modo che Antonietta viaggiasse da Vienna a Parigi con il massimo comfort possible. Erano fatto con legni rari, rivestite all'interno di raso; sedili e spalliere erano di velluto cremisi e azzurro. I prezioso ricami - vere e prorie opere d'arte dipinte con l'ago - rappresentavano me quattro stagioni e mazzi di fiori dorati. Durfort consegno' ad Antonietta una lettera del future marito e un altro sul ritratto, un medaglione incrostato di diamanti e dotato di un nastrino per portarlo al collo. Due giorni dopo Antonietta rinuncio' solennemente a ogni diritto sui domini di sua madre e sotto gli occhi impazienti dei dignitari austriaci e dei diplomatici Francesi, scarabocchio', faticosamente la sua firma in calce al documento di rinuncia.

Da anni non si vedevano a Vienna celebrazioni su questa scala; la capitale rimase in festa per diversi giorni, con le strade illuminate di notte e con musica fuochi d'artificio e spettacoli a disposizione di tutta la cittadinanza. Il giorno 18 ci fu un banchetto, offer to stavolta da Durfort a palazzo di Lichtenstein, sede dell'ambasciata di Francia. Nei giardini del palazzo era state costruito un grande tempio di Imene, da cui salivano verso il cielo fuochi d'artificio ancora piu' abbaglianti di quelli della sera precedente. Il giorno dopo, allegra sei del pomeriggio, signori e dame della corte affollarono la chiesa degli agostiniani per assistere alla cerimonia nunziale. In assenza del delfino, il suo posto venne preso dall'arciduca Ferdinando, fratello di Antonietta il quale in ginocchio accanto alla sorella sorridente, le infilo' al dito la fede. La messa fu celebrate dal nunzio pontificio Visconti, poi i cannoni del palazzo imperiale spararono lungamete a salve; il fragore delle esplosioni faceva tremare i muri dell'antica chiesa.

Per spianarle ulteriormente la strada, Maria Teresa le forni' una guida articolata di precise regole, da leggere e rileggere una volta al mese. Le regole ingiungevano ad Antonietta di adempiere ai suoi doveri spirituali, comprese le dovozioni personali del mattino, di fare del suo meglio per conformarsi allegra usanze francesi, di evitare le familiarita' con i subalterni e di non lasciarsi coinvolgere nelle sollecitazioni e nelle lagnanze dei singoli postulanti. Antonietta non doveva prendere initiative, ne' esaudire richieste, ne' most rare curiosita' . <<Non leggere nessun libro, neanche il piu' insignificante, se non hai prima ricevuto il permesso del tuo confessore,>> proseguiva Maria Teresa <<Questo e' un punto particolarmente importante in Francia, perche' in quel paese si pubblicano libri che, pur essendo pieni di una gradevole erudizione, possono nondimeno essere perniciosi per la religione e la morale.>>

Sapeva che a una fanciulla ingenua e fiduciosa sarebbe stato molto difficile , in un luogo come Versailles, tenere la testa a posto e comportarsi con giudizio, anche con la migliore delle guide. Antonietta avrebbe trovato troppe cose che non le erano familiari, troppe tentazioni, troppe voci suadenti che invitavano a percorrere sentieri rischiosi, troppo pochi esempi di innocenza e di decoro. Suo marito non sembrava uomo capace di proteggerla; sembrava anzi, incapace di proteggere perfino se stesso. In fondo, Antonietta, era figlia di sua madre, anche se aveva un carattere dolce. Forse, con l'andare degli anni, avrebbe dato prova della sua tempra.

Il 21 aprile, Antonietta, salì su una delle grandi berline che erano state studiate e fabbricate per consentirle di viaggiare con la massima comodità possibile. Era stata autorizzata a portare con sé, nella sua nuova vita, pochissime cose familiari, qualche oggetto di sua proprietà personale che le era molto caro, abiti sufficienti finché avesse raggiunto il confine con la Francia, il suo cagnolino. Avrebbe viaggiato con lei l'abate Vemond, ma non la contessa Lerchenfeld, che era morta l'anno prima, né alcuno dei servitori che Antonietta conosceva dall'infanzia. Essa portava con sé, però un bene prezioso: le <<Istruzioni ai miei figli per la vita spirituale e per quella temporale>>, composte da su padre. Il breve scritto paterno esortava Antonietta e i suoi fratelli a essere sinceramente cattolici, a coltivare il riserbo e la discrezione, a comportarsi in modo caritatevole con i poveri e a non essere troppo attaccati al lusso. <<Il mondo in cui dovete passare la vita è transitorio>>, ammoniva Francesco dall'oltretomba. <<Nulla è senza fine tranne l'eternità>>. Dobbiamo godere delle gioie di questa vita con innocenza, perché appena ci portano al male, quale che ne sia il genere, cessano di essere gioie>>.

Vi raccomando di destinare ogni anno due giorni alla preparazione per la morte>>, concludeva Francesco, <<come se aveste la certezza che quei due giorni sono gli ultimi della vostra vita, in tal modo vi abituerete a sapere ciò che dovreste fare in simili circostanze, e quando arriverà il momento estremo non sarete colti di sorpresa ma saprete cosa fare>>. Devozione, religione, virtù: questi erano gli ideali di Francesco. <<Vi raccomando di leggere queste istruzioni due volte all'anno; vengono da un padre che vi ama sopra ogni cosa, e che ha ritenuto necessario lasciarvi questa testimonianza del suo tenero affetto, un affetto che non potrete ricambiare meglio che amandovi tra voi con la stessa tenerezza con cui egli vi ama>>.

La berlina si avviò lentamente, poi prese un'andatura un po' più celere. Molta gente era scesa nelle strade per veder passare la delfina nella sua sfarzosa vettura; i viennesi acclamavano Antonietta, agitando le mani e gridandole il loro augurio. Quelli dotati di una vista acuta notarono che aveva le guance bagnate di lacrime. Si era abbandonata sulla spalliera di velluto, <<coprendosi gli occhi, a volte con il fazzoletto, a volte con le mani; di tanto in tanto si affacciava al finestrino per dare un'ultima occhiata al palazzo dei suoi avi, in cui non avrebbe mai più messo piede>>. Il grande convoglio di carrozze che scortava la sua berlina si allungava sulla strada fangosa per diverse miglia; i battistrada a cavallo erano avvolti in grigi mantelli, che nascondevano alla vista le loro brillanti uniformi azzurre e gialle, perché aveva cominciato a cadere una fredda pioggerellina primaverile. La folla si diradò, poi Vienna scomparve in lontananza.

venerdì 11 novembre 2016

Maria Antonietta. cap. IV part. 3

Non me erano ancora cominciate le mestruazioni, e finche' questo non fosse avvenuto I framcesi non avrwbbero dato Il loro assenso alla celebrazione delle nozzle. Poi, nel febbraio del 1770, due mesi prima della data fissata per la cerimonia, la prima perdita periodica arrivo'. Maria Teresa ne informo' lo speciale rappresentante del re di Francia, Durfort, il quale si affretto' a mandare a Parigi un correre veloce con la lieta notizia. La <<sposina>>, come l'imperatrice chiamava Antonietta, era finalmente una Donna.

Luigi XV aveva chiesto di vedere qualche ritratto di Antonietta, ma a Vienna non ne era arrivato nessuno di suo nipote. In fine, con l'approssimarsi del giorno fissato per le nozze, l'imperatrice ne chiese uno. Ne arrivarono due, nessuno dei quali riusciva a nascondere la zoticaggine del delfino, grasso e con le guance cascanti. Anche qui me fonti tacciono sulla reazione di Antonietta, salvo notare che essa chiese il permesso di appendere uno dei ritratti a una parete del suo salottino.

L'imperatrice era sgomenta, cerco' quindi di preparare Antonietta al travaglio del matrimonio con quel ragazzo tango goffo, dicendole che una moglie deve sempre rendersi gradita e conportarsi in modo remissivo, che l'amore appassionato e' soltanto una gioia passeggera, ma non e' fondamento ne' solido ne' necessario per un matrimonio, che l'aspetto personale di in uomo e' di gran lunga meno importante di cio' che egli ha nel cuore. Antonietta ascoltava, abbassando lo sguardo sull'anello del delfino, che portava al dito da gennaio, poi tornando a fissare la madre con i suoi occhi innocent I e fiduciosi. Chiaramente non capiva.

Maria Antonietta Cap. IV part. 3

Non me erano ancora cominciate le mestruazioni, e finche' questo non fosse avvenuto I framcesi non avrwbbero dato Il loro assenso alla celebrazione delle nozzle. Poi, nel febbraio del 1770, due mesi prima della data fissata per la cerimonia, la prima perdita periodica arrivo'. Maria Teresa ne informo' lo speciale rappresentante del re di Francia, Durfort, il quale si affretto' a mandare a Parigi un correre veloce con la lieta notizia. La <<sposina>>, come l'imperatrice chiamava Antonietta, era finalmente una Donna.

Luigi XV aveva chiesto di vedere qualche ritratto di Antonietta, ma a Vienna non ne era arrivato nessuno di suo nipote. In fine, con l'approssimarsi del giorno fissato per le nozze, l'imperatrice ne chiese uno. Ne arrivarono due, nessuno dei quali riusciva a nascondere la zoticaggine del delfino, grasso e con le guance cascanti. Anche qui me fonti tacciono sulla reazione di Antonietta, salvo notare che essa chiese il permesso di appendere uno dei ritratti a una parete del suo salottino.

L'imperatrice era sgomenta, cerco' quindi di preparare Antonietta al travaglio del matrimonio con quel ragazzo tango goffo, dicendole che una moglie deve sempre rendersi gradita e conportarsi in modo remissivo, che l'amore appassionato e' soltanto una gioia passeggera, ma non e' fondamento ne' solido ne' necessario per un matrimonio, che l'aspetto personale di in uomo e' di gran lunga meno importante di cio' che egli ha nel cuore. Antonietta ascoltava, abbassando lo sguardo sull'anello del delfino, che portava al dito da gennaio, poi tornando a fissare la madre con i suoi occhi innocent I e fiduciosi. Chiaramente non capiva.

giovedì 3 novembre 2016

Maria Antonietta cap. IV part.2

Antonietta era sbalorditivamente ignorante e poco meno che analfabeta. Odiava leggere e senza dubbio leggeva molto male, scriveva con penosa lentezza e senza dubbio conngrande fatica. Molto probabilmente non sarebbe stata capace di scrivere una semplice lettera senza in considerevole aiuto. Era stata allevata per stare senza far niente, la contessa Brandeiss aveva tollerato che rimanesse incolta; quanto alla contessa Lerchenfeld, che aveva preso il posto della contessa Brandeiss come governante, i suoi sforzi per dare ad Antonietta in minimo d'istruzione non avevano avuto un successo molto maggiore. Mercy trovo' un istitutore francese l' abbé' Mathurin Vermond, un uomo non appariscente ma suadente, che affronto' l'impresa di porre rimedio alle deficienze della giovanissima arciduchessa. Era un compito assai gravoso. La mente della futura delfina era una tabula rasa si cui si sarebbe potuto scrivere di tutto. Vermomd si dedico' per prima cosa a istruire la sua allieva sulla storia e sui costumi francesi, facedole imparare i nomi e me vicende delle maggiori famiglie i cui rappresentanti essa avrebbe consciuto a Versailles, e passando poi a illustrarle la letteratura francese dell'epoca nel modo meno penoso possible. Tutte le nozioni venivano trasmesse oralmente nel corso di colloqui, pur se Vermond assisteva la giovanissima arciduchessa anche quando quests si arrabattava negli esercizi di scrittura.

Restava solo da migliorare il sul frances, e Vermond trovo' questo compito assai difficile nel caps linguistico di Vienna. Tutti erano multilingui, ma nessuno parlava qualsiasi idioma in modo corretto, senza risentire dell'influenza degli altri. Alla corte di Maria Teresa prevaleva in cattivo francese; a parlar bene questa lingua erano in pochi. L'abate aveva fatto del sul meglio per eliminate i germanismi dal francese di Antonietta, ma questa parlava ancora molto scorrettamente. Vermond poteva soltanto sperare che i difetti di eloquio me fossero perdonati in omaggio alla sua vitalita' e alla sua grazia.

Nel corso del quattordicesimo anno di eta' essa era cresciuta notevolmente. Stava diventando anche piu' formosa; gli attillati corpetti dei suoi abito parigini mettevano in nostra il solco, sempre piu' marcato, fra i seni. L'anziano cardinale francese di Ronan, mandato a Vienna perche' desse in giudizio di prima mano sullo sviluppo fisico Dell narco duchessa, rimase sbalordito. <<La forma del suo volto e' di in ovals perfetto>>, scrisse, <<le sopracciglia sono folte come possono essere in una persona bionda, e in tantino piu' scuro dei capelli, le ciglia di incantevole lunghezza... Ha una bocca piccola, scarlatta come una giliegia, le labbra soon piene, specialmente quello inferiore, che e' com' e' noto, il tratto distintivo della Casa di Borgogna (cioe' gli Asburgo)>>. Come tutti gli altri osservatori, il cardinals rimase impressionato dalla carnagione di Antonietta, come di porcellana incontaminata, e dal suo colorio naturale. Accantonando, per una volta, le sue rigorose disposizioni sull'uso del trucco da parte delle figlie, l'imperatrice aveva autorizzato Antonietta a darsi in po' di Rossetti sulle guance; ma il trucco non faceva che sovrapporsi al naturals rossore, che era di gran lunga piu' attraente. <<La sua innata dignita' e' temperata dalla dolcezza>>, concludeva l'alto prelato, <<anch'essa naturale, e dalla semplicita' della sua educazione>>.

Maria Antonietta. Cap. IV

A Versailles, il delfino Luigi Augusto fu tutt'altro che entusiasta quando apprese che doveva sposare un'arciduchessa austriaca. Non aveva voglia di sposarsi, anzi non aveva alcun interesse per le donne e l'argomento sesso lo riempiva di paura. Era in adolescente di quindici anni, goffo, zotico, tozzo e sudicio, villanissimo e terrorizzato dalle funzioni pubbloche. L'amante di suo nonno Luigi XV, madame Du Barry, che a sua volta non era troppo ben educata, lo definiva <<un ragazzo grasso e maleducato>> e l'ambasciatore del regno di Napoli affermo' seccamente, una volta, che sembrava <<nato e cresciuto in una foresta>>. Che un simile enfant sauvage fosse l'erede al trono del sul avo Luigi XV era una calamita' che il re e i suoi ministri sarebbero stati ben lieti di scongiurare.

Un destino ingrato aveva cacciato a forza nel suo ruolo Luigi Augusto. Appena undicenne, pietosamente schivo e malaticcio, bersaglio delle prepotenze dei fratelli, proprio lui, che dei quattro figli del delfino Luigi era il meno promettente, era divenuto a sua volta delfino quando sul padre e il sul fratello maggiore erano morti. Aveva pianto per il terrore e si era nascosto nel sul rifugio preferito, la foresta di Compie'gne. Qui poteva andare a caccia e addentrarsi fra gli alberi, lontano dagli occhi severi dei ministri di suo nonno. Luigi Augusto era un bambino eccentrico, mediocre nello studio eppure libresc e pedante (compilo' una particolareggiata descrizione della foresta di Compie'gne prima di raggiungere i dodici anni), a disagio con gli altri bambini e con le signore e le dame di corte di Versailles, felice quanto mai in compagnia di lavoratori ordinari e domestici. Le carte geografiche erano la sua passione, ma fin dalla primissima.adolescenza provo' un certo interesse anche per la storia, particolarmente per la guerra civile in Inghilterra, con il suo sensazionale regicidio. Teneva inoltre in diario, in primo luogo per raccontare le sue battute di caccia e annotate le spese.

Nell'estate del 1769 le diplomazie francese e austriaca cominciarono a negoziare il contratto di fidanzamento, con l'intesa che il matrimonio sarebbe stato fissato per l'aprile dell'anno seguente. La dote di Antonietta venne stabilita in duecentomila fiorini d'argento, piu' in eguale ammontare di gioielli. Dato che era in gioco il prestigio di due grandi potenze, I particolari del cerimoniale assunsero un'importanza inedita. Chi doveva firmare il contratto di fidanzamento per primo, i Francesi o gli austriaci? Chi doveva avere la precedenza nel corteo, quando sarebbero cominciati i festeggiamenti? Chi avrebbe accompagnato la sposa da Vienna a Parigi, e quali formalita' si sarebbero dovute osservare quando essa sarebbe stata affidata alla sua nuova famiglia? Quali regali di nozze avrebbe ricevuto? Il cancelliere imperiale Kaunitz e il suo ambasciatore, conte Mercy, negoziarono duramente su questi problemi con il duca di Choiseul e il suo sostituto Durfort, con un andarre e venire di progetto d'accordo fra le capitali austriaca e francese che si protrasse d
per tutta l'estate e tutto l'autunno.

domenica 28 agosto 2016

Maria Antonietta. Capitolo 3

Maria Antonietta. Capitolo 3



Maria Antonietta



Alle giovani arciduchesse si insegnava a seguire l'esempio materno, vestendosi semplicemente quando non dovevano comparire in pubblico. Maria Teresa in famiglia, indossava abiti semplici e cuffie di merletto; quanto al suo abbigliamento formale di corte, era economa e pratica: <<Per tutte le funzioni di corte occorrono abiti elaborati>>, scrisse una volta, <<ma ciò non rende necessario un ampio guaradaroba, poiché si può indossare lo stesso abito per venti giorni di fila>>. Maria Teresa vincolò i figlin a un modello di austerità anche per quanto riguardava il mangiare e il bere. Perfino nei banchetti più sontuosi, in cui le lunghe tavole traboccavano di carni, pasticci e dolci e gli invitati menavano vanto della quantità di vino che potevano tracannare, il ministro di stato sassone conte Pflug, si gloriava di saper bere dieci bottiglie di vino in un solo pasto - l'imperatrice mangiava e beveva parsimoniosamente, mordicchiando fettine di arancia e di limone e sorseggiando limonata da un calice d'oro.


Regalità significa respondabilità, dovere, abnegazione costante: non c'è posto per il lassismo e la debolezza, né per l'autoindulgenza del vizio. In tutto ciò che faceva, Maria Teresa offriva un modello di autodisciplina ferrea, quasi sovrumana.

Maria Antonietta era estremamente affezionata alla madre e desiderosa di compiacerla, e ciò, unitamente al suo carattere remissivo, faceva di lei una figlia modello. Non aveva nulla della truculenza del litigioso fragtellon Leopoldo, nulla della cocciutaggine e dell'altezzosità del fratello Giuseppe. Da molti punti di vista era figlia di sua madre: graziosa, ben fatta, femminile, dotata di una sppontateità e di un fascino che conquistavano. Di sua madre le mancavano la forza di volontà, la fermezza di propositi e l'eccezionale intelligenza, doti che possedeva sua sorella Carolina; ma Carolina era una ragazza grande, ossuta e goffa, col volto turato e un'espressione severa, mentre Antonietta era delicata e snella; con lineamenti aggraziati e una carnagione levigata e rosea. Quando raggiiunse i cinque o sei anni d'età apparve chiaro che Antonietta sarebbe stata la bellezza della famiglia, la sua avvenenza, un pò da bambola, superava quella delle sue sorelle più attraenti, la volitiva Amalia, e la sventurata Elisabetta, la cui bellezza fu disastrosamente rovinata dalle cicatrici del vaiolo.


I festeggiamenti per il matrimonio di Giuseppe (che la madre aveva soprannominato Starrkopf, il Testardo) con Isabella di Parma, nipote di re Luigi XV di Francia, si protrassero per giorni e giorni, con un vertiginoso succedersi di balli e banchetti e sfarzose rappresentazioni all'aperto. Il corteo nunziale, estremamente lungo, impiegò molte ore per coprire il suo itinerario nelle strade di Vienna: la magnifica berlina argentata e dorata dell'arciduca era seguita da decine e decine di carrozze di aristocratici, tutte piene di decorature e di ornamenti, e ciascuna con imponenti parglie di cavalli e postiglioni in livrea.


Isabella di Parma

Isabella era un'anima tormentata che, con vergogna, aveva concepito una passione molto più forte per la sorella di suo marito, Cristina, che per lui. Un legame lesbico era impensabile alla corte di Maria Teresa, con il clia di rigida moralità che la contrassegnava, e la sventurata Isabella non tardò a rimaner preda di una malattia mentale. Cominciò a udire  voci, <<La morte mi parla con una voce segreta ma distinta che risveglia nella mia anima una docle soddisfazione>>, diceva a Maria Teresa e ai suoi familiari inorriditi. La morte la ossessionava, e alla fine ebbe ragione di lei. Quattro anni dopo aver sposato Giuseppe essa morì di vaiolo, quache giorno dopo aver partorito un figlio morto.

Giuseppe si risentì ancora di più quando scoprì che doveva scegliere fra le repellente Cunegonda di Sassonia e la bassa, tozza e foruncolosa Giuseppina di Baviera. <<Preferirei non sposare né l'una né l'altra>>, annunciò l'erede al trono di sua madre, <<ma siccome hai tu il coltello dalla parte del manico sceglierò Giuseppina perché, da quello che ho sentito, ha almeno un bel seno>>.


Giuseppina di Sassonia

Dopo un matrimonio funereamente tetro, Giuseppe rifiutò di avere a che fare con la sventurata sposa: umiliandola, con pubbliche manifestazioni di indifferenza. A chiunque gli facesse domande sul suo matrimonio rispondeva di trovare Giuseppina <<insopportabile>>, con denti orribili e un corpo informe e privo di qualsiasi attrazione <<Vogliono che faccia dei figli>>, esplose una volta <<Come è possibile? Se potessi posare l'indice su una parte del suo corpo anche piccola, che non sia coperta da foruncoli, tenterei di fare un figlio>>, Giuseppina, senza figli e, cosa altrettanto triste, senza amici, scompariva nei suoi appartamenti e piangeva.

Sull'altare dell'ambizione dinastica il turno di sacrificarsi toccò a Leopoldo. I festeggiamenti per il suo matrimonio - sposò l'infanta di Spagna - Luisa, furono però guastati dall'improvvisa morte di suo padre, l'imperatore Francesco. Antonietta non assistette alla cerimonia nunziale, ma assai probabilmente la associò alla memoria con la morte del genitore, che piombò la corte in un lutto prolungato e provocò in Maria Teresa un profondo cambiamento.


Maria Carolina


Energica e positiva per natura , benché afflitta da periodiche depressioni, l'imperatrice pareva aver perso completamente il suo coraggio; sedeva da sola negli appartamenti parati a lutto, con i capelli tagliati corti, abbandonandosi a pensieri sempre più morbossi, parlava perfino di entrare in convento. Per la figlia di nove anni, anch'essa addolorata per la morte del padre, la trasformazione dovette essere sconvolgente, specie quando Maria teresa ordinò che la bara a lei destinata fosse posta accanto a quella del marito nella cripta della chiesa dei Cappuccini. L'imperatrice trascorreva buona parte di ogni pomeriggio nella cripta, seduta vicino al sepolcro del marito, pregando e piangendo.

L'unico tempo che contava, per lei, era quello che trascorreva con suo marito. <<L'Imperatore Francesco I, mio marito>>, scrisse nel suo libro di preghiere, <<morì la sera del 18 agosto alle nove e mezzo, visse 680 mesi, 2.958 settimane, 20778 giorni, ossia 496992 ore. Il nostro felice matrimonio durò ventinove anni, sei mesi e sei giorni 1450 settimane, 10781 giorni ossia 258744 ore>>. Questi calcoli del rempo divennero una litania del suo lutto, parte integrante dei diversi riti d'afflizione che formavano le sue giornate.

Dopo le nozze di Leopoldo, restavano dieci figli, ma la maggiore Anna, non avrebbe mai potuto trovar marito per la debolezza fisica e le frequenti malattie, e anche Elisabetta aveva ben poca speranza di arrivare al matrimonio, dato che aveva il volto butterato dal vaiolo. A entrambe le giovani furono conferite cariche religiose titolari: ad Anna come baedssa di Praga e a Elisabetta come badessa di un convento di Innsbruck: esse però continuarono a vivere alla corte materna.

Quando Cristina andò sposa al duca di Teschen, Alberto, l'imperatrice lo nominò governatore d'Ungheria, facendo in modo che Cristina rimanesse abbastanza vicina a lei, a Pressburg. Ed ebbe la consolazione di sapere che Cristina e Alberto si amavano molto. Il loro fu un matrimonio felice, in netto contrasto con il triste legame fra Giuseppe e Giuseppina. Quest'ultima, poco dopo, si ammalò di vaiolo e morì. Causando indirettamente un altro decesso nella famiglia imperiale quando nl'arciduchessa Giuseppina, sua cognata, contrasse il morbo nel corso di una visita al suo sepolcro nella cripta di famiglia.

Un'impressione ancora più favorevole suscitò a un ballo che si svolse nell'ottobre 1769. C'erano quarantamila invitati, tutti ansiosi di vedere la figlia minore dell'imperatrice, la fanciulla vincente, non ancora quttordicenne, che era stata scelta come sposa del delfino di Francia. Facevano a gara per trovarsi in prima fila quando Maria Teresa passava per le sale stipate, con Antonietta al fianco. L'imperatrice camminava lentamente e con una certa difficoltà, impacciata dalla crescente ocesità, respirando evidentemente a fatica. Un attacco di vaiolo, due anni prima, le aveva indebolito il cuore e compromesso l'equilibrio nervoso; la sovrana appariva invecchiata e spossata.

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mercoledì 24 agosto 2016

Maria Tersesa d'Austria. L'impero barocco. Parte 2


Maria Teresa d'Austria

Nella sala delle cerimonie della biblioteca di corte che egli stesso volle far costruire, l'imperatore Carlo VI è raffigurato in posa statuaria. durante le processioni del Corpus Domini, nel corso delle quali la pietas austriaca era esternaya con sfarzo barocco, la maestà terrena incedeva bensì dietro quella divina, ma sotto lo stesso baldacchino. Carlo VI si presentava nella tenuta di gala a suo tempo in voga nella corte di Spagna: non vestito di nero, ma di rosso e oro, con in capo un cappello dorato di piume ondeggianti. L'imperatore Carlo VI, che aveva cominciato la Guerra di successione spagnola ancora come re di Spagna, perdette il titolo ma conservò, con l'etichetta di corte spagnola, l'intera sua tipica cerimoniosità. Suo modello fu Filippo II, che aveva sentito i dovere di dimostrare la propria maestà sottolineandone i tratti dell'inaccostabilità e dell'inflessibilità.

Carlo VI anche nel momento della morte s'imputò perché gli fosse reso il dovuto rispetto: quando gli impartirono l'estrema unzione fece notare, seccato, che erano state acese due candele soltanto, anziché le quattro che gli spettavano. Lo spagnolesco costume di corte rivestiva un uomo cui quell'abito non stava soltanto bene, ma corrispondeva anche, per vari aspetti, al suo carattere. Il nero, colore dominante dell'abbigliamento di corte spagnolo, si adeguava perfettamente al suo umore serio, a volte cupo. La formale compostezza di quel colore, che induceva al comportamento controllato e nauseato, assecondava la sua natura riflessiva, talvolta perfino pigra e lenta. Così ebbe modo di conoscerlo Maria Teresa: il padre premuroso della cerchia familiare, che si chinava per accarezzare la sua Teresina. Il destino risparmiò a Maria Teresa, far i tratti tipici degli Asburgo, sia la malinconia, sia il labbro inferiore sporgente. Il fascino muliebre, ammirato nella figlia, era invece già stato apprezzato nella madre.

<<La regina è bella e questo mi rende felice>> aveva registrato l'imperatore Carlo VI - allora ancora re Carlo III di Spagna - nel suo diario, quando il 28 luglio 1708 aveva accolto la sposa diciassettenne. Il nonno di lei, duca Anton Braunschweig - Wolfenbuttel, era un piccolo signore feudale dalle grandi ambizioni. Pur di vedere la nipote nelle vesti di regina di Spagna, si era dato da fare ricorrendo a tutti i mezzi, nobili e non. Per poter sposare un Asburgo, la giovane aristocratica protestante del casato dei Welfen, aveva dovuto farsi cattolica. La politica dinastica condizionò anche le combinazioni matrimoniali degli Asburgo. Nel caso dei secondogeniti, tuttavia, i criteri della scelta non erano così rigorosi come per i principi ereditari delle terre del casato d'Austria o del trono imperiale romano - tedesco. Per il re del Portogallo. La principessa portoghese era morta prima delle nozze, e allora si era mirato a perseguire un altro e più immediato scopo. Da un'unione fra un Asburgo e una Wolfen, che si sarebbe potuta interpretare anche come un atto di conciliazione fra cattolici e protestanti, Vienna aveva sperato di poter conseguire effetti positivi per la posizione del Kaiser (l'imperatore) nel Reich (l'impero).

Il matrimonio fra Carlo ed Elisabetta fu felice. La loro armonia non fu molto turbata nemmeno dalla maggior disgrazia che potesse colpire una coppia di sovrani, cioè la mancanza di un erede maschio. Dopo il piccolo Leopoldo Giovanni, nato e morto nel 1716, vennero al mondo soltanto femmine: nel 1717 Maria Teresa, nel 1718 Maria Anna e nel 1724 Maria Amalia (che morì poi nel 1730). Fu un marito e un padre di famiglia migliore di quanto si fosse solitamente abituati in quell'epoca e in quegli ambienti. Ci teneva alla pace domestica: <<Pomeriggio passato in compagnia di moglie e figlie; cordialmente, allegramente>> annotò il 28 febbraio 1724. Quando era assieme alle sue donne, non aveva bisogno di assumere gli atteggiamenti e i comportamenti che gli imponeva la sua cronaca pubblica. Maria Teresa crebbe così in una famiglia che aveva, il dovere di rappresentare il casato d'Austria, ma fra le cui quattro mura si viveva spensieratamente, a volte perfino chiaramente, come in una qualsiasi casa borghese di Vienna.

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Maria Teresa d'Austria. L'impero Barocco. Parte 1

L'IMPERO BAROCCO


Carlo VI


All'alba del 13 maggio 1717 la campana maggiore della Chiesa di Santo Stefano, a Vienna, annunciò un lieto evento nella casa regnante. La neonata arciduchessa fu battezzata con i nomi di Maria Teresa Walburga Amalia Cristina. Sull'altare eretto nella sala dei Cavalieri, erano state disposte: una spina della Corona, un chiodo della Croce e una polla di vetro con sangue del Redentore. Anche l'ultima nata della dinastia fu battezzata come Gesù Cristo, e cioè con l'acqua del Giordano. Durante il rito fu ricordata la figura della santa patrona e si espresse l'auspicio che la neonata seguisse le orme di Teresa d'A'vila, la spagnola che si era dedicata a Dio senza rinunciare a essere donna.

A Maria Vergine fu resa gratitudine con la donazione di una statua d'oro puro raffigurante la Magna Mater Austria e in sembianze infantili. Per l'impero e per il mondo fu invece coniata una moneta. Rappresentava la neonata infilata in una cornucopia sorretta da una figura femminile simboleggiante la speranza, e corredata dalla scritta: Renascens spes orbis, la rinascente speranza del mondo. L'imperatore Carlo VI e l'imperatrice Elisabetta Cristina, nata principessa di Braunschweing-Wolfenbuttel, dopo otto anni di matrimonio, avevano dato alla luce, nel 1716, un erede al trono, Leopoldo Giovanni, ma il piccolo era vissuto solo sette mesi. LA nascita della bambina fu sottolineata senza eccessivo sfarzo. Quella di Leopoldo Giovanni, il teorico successore al trono, era stata festeggiata nei giardini della Favorita, con la rappresentazione di un'opera sull'acqua, Angelica vincitrice di Alcina e in tutta Vienna con fuochi d'artificio.


Elisabetta Cristina


Se la Hofburg era una composizione eterogenea di elementi architettonici di epoche e stili diversi, così anche la struttura del Reich asburgico. Il nucleo che nel XIII secolo, sotto Rodolfo d'Asburgo, si era formato attorno a una roccaforte, la città di Vienna, si era talmente estesa da assumere nel XVIII secolo proporzioni splendide e imponenti. E mentre ala Hofburg era stata arricchita dalla biblioteca di corte, della scuola d'equitazione spagnola, e dell'ala che fungeva da sede della cancelleria imperiale, il Reich da parte sua era dilagato ingrandendosi in ogni direzione. Il padre di Maria Teresa, assunta nel 1711 l'eredità del fratello Giuseppe I nell'impero romano - tedesco e nei territori austriaci della corona, non poté dunque rinnovare i fasti dell'impero di Carlo V. Carlo VI si trovò tuttavia a governare su un complesso di territori che costituivano in ogni caso una grande potenza continentale. Carlo VI, secondo figlio dell'imperatore Leopoldo I, era nato nel 1685, ancora arciduca aveva assistito alla ricacciata degli Ottomani lungo i Balcani, all'estendersi dell'Austria verso sudest e alla riconquista di quell'Ungheria di cui gli Asburgo portarono il titolo reale fin dal 1526. Tre mesi dopo la nascita di Maria Teresa, il 18 agosto 1717, il principe Eugenio di Savoia conquistò Belgrado, la fortezza turca sul Danubio. Dalla guerra di successione spagnola, all'Asburgo era stata attribuita la sovranità su alcuni paesi che erano stati in precedenza assoggettati alla Spagna. Nel 1714, con la pace di Rastatt l'Austria si era infatti vista assegnare i Paesi Bassi, Milano, Napoli e la Sardegna. L'Austria raggiunse in quel momento la sua massima estensione e l'apice della sua potenza. Non tutte le acquisizioni sarebbero state facili da conservare.

L'Austria inferiore e quella superiore, la Stiria, la Corinzia e la Craina, il Tirolo e Vorarlberg, Trieste e Gorizia, cioè in Svevia e Brisgovia inoltre alla casa d'Austria appartenevano anche la Boemia, la Moravia e la Slesia. Comprese fra i territori direttamente assoggettate al casato degli Asburgo, erano invece l'Ungheria, la Slovacchia e la Transilvania. Il padre di Maria Teresa era titolare di parecchi ducati, dei regni di Boemia, d'Ungheria, nonché di quella corona del Sacro romano impero di nazione tedesca che gli accollava molti oneri e scarso potere. Il sultano aveva tentato di dilagare in Occidente, il re di Francia di assumere il predominio sull'Europa. Ma gli Ottomani erano stati costretti alla ritirata, e i francesi alla rinuncia. Quando - nel 1715 - morì il Re Sole, Luigi XIV, parve salire in cielo la stella dei un <<imperatore sole>>., Carlo VI. A Vienna, sua capitale e residenza, la Chiesa di San Carlo, fu eretta per essere la chiesa dell'impero: timpano alla maniera dei templi greci, capitelli corinzi, colonne come quella di Traiano, con i simboli del trionfo dell'imperatore e l'immagine delle aquile imperiali.


Chiesa di San Carlo. Vienna

La Chiesa dell'impero fu intitolata a San Carlo Borromeo, antesignano della Controriforma. Il motto di Federico III; il primo imperatore asburgico incoronato a Roma nel 1452, parve diventare moneta d'uso corrente e di valore costante. A.E.I.O.U. ovvero <<Austriae est imperiare orbi universo>> (la missione dell'Austria è dominare l'universo mondo). Alcuni contemporanei rivelarono che, in un continente ormai decisamente in marcia verso la modernità, una sintesi secondo lo spirito medioevale e nelle forme imperiali era diventata ormai impossibile. Molti austriaci si chiedevano se l'impero degli Asburgo non fosse semmai in procinto di trasformarsi, in un corpo statale che un giorno non troppo lontano sarebbe stato sufficientemente forte da diventare la potenza dominante in Europa. La parte interna della città di Vienna era ancora ristretta nella cerchia delle fortificazioni. Fuori dalle mura cittadine si sviluppò il nuovo stile imperiali. Alcuni sobborghi erano stati rasi al suolo, per non offrire copertura agli assedianti turchi e per dare agli assediati austriaci la possibilità di dirigere meglio il tiro. Sorse una città fatta di splendidi palazzi, disposti con magnificenza in mezzo a grandi parchi. Il palazzo più straordinario della città era il Belvedere superiore, costruito da Johann Lukas von Hildebrandt per quel principe Eugenio che veniva celebrato come l'Ercole e l'Atlante della monarchia.


Hofburg


La Hofburg era fuori moda e poco confortevole. Secondo la testimonianza di un viaggiatore, era <<di aspetto squallido, specialmente nella corte interna con le stanza dell'imperatore; le mura sono spesse e rozze come quelle di una città, le scalinate buie e prive di decorazioni, le stanze basse e anguste, i pavimenti fatti di comuni assi d'abete, di una qualità che non si troverebbe peggiore nella casa dell'ultimo dei cittadini. Tutto è così semplice da sembrar costruito per dei monaci>>. La Favorita ricostruita alla fine del XVII secolo da un architetto di second'ordine <<non è una particolare magnificenza ed è stata anzi edificata in modo mediocre>> come giudicò quel Johann Basilius Kuchelbecher che non si stancava invece d'esaltare la residenza del principe Eugenio. Grandioso il giardino barocco strutturato more geometrico, nel quale la natura era cioè stata piegata e asservita a una concezione culturale, e dove i viali bordati d'alberi e di cespugli accuratamente potati erano disposti in un ordine degno dell'ambiente di corte, si da sollecitare i dignitari a passi solenni e misurati.


Pietro Metastasio



Il signore di Vienna, città dove la musica risuonava in ogni angolo, era un musicista egli stesso. Era stato istruito alla composizione da Johann Joseph Fux. Suonava il pianoforte <<con la maestria di un professore>>. L'imperatore, usava dirigere personalmente le rappresentazioni delle opere composte dagli artisti di corte. Ai libretti provvedeva, per lo più Pietro Metastasio il poeta cesareo che riuscì, per cinquantadue anni di fila, a mettere in scena prima il padre Carlo VI e poi la figlia Maria Teresa nei panni degli antichi eroi trasfigurati in divinità barocche. Durante il regno di Carlo VI furono ogni anno composte e rappresentate, mediamente, dieci fra grandi opere e oratori. Nel 1716 Lady Mary Wartley - Montagu fu letteralmente abbagliata dallo splendore barocco di una rappresentazione operistica allestita nel teatro all'aperto del parco della Favorita: <<Non si è mai visto, in questo genere, spettacolo più magnificò>> annotò l'aristocratica scrittrice inglese. <<La scena costruita su un ampio canale, si è divisa in due parti all'inizio del secondo atto, così da consentire di scorgere l'acqua sulla quale sono apparse, da diverse direzioni, due flotte composte da piccole imbarcazioni dorate che rappresentavano una battaglia marina. La mente da sola non basta per figurarsi la bellezza di un simile spettacolo>>. Anche nell'Austria barocca <<non tutto va sempre liscio>>. Gli spettacoli erano allestiti all'aperto, gli spettatori stavano seduti sotto la tenda costituita dal ciclo e quando questo apriva le cateratte, lo sfarzo fatto di trucco e parrucche si dissolveva, la rappresentazione doveva essere interrotta, e nella calca di quanti correvano in cerca di riparo la Lady inglese sarebbe stata probabilmente travolta e schiacciata. Poi però l?astro di Apollo tornava a riscaldare quanti avevano la fortuna di essere direttamente esposti ai raggi dell'imperatore -sole. Johann Michael van Loen: <<L
La corte assomiglia a quell'uccello del paradiso che manifesta tutto il suo splendore nel piumaggio>>.

martedì 23 agosto 2016

Maria la sanguinaria. Prefazione

Maria la sanguinaria.

Prefazione


Maria I d'Inghilterra


Non esistono monumenti a Maria Tudor in Inghilterra. Nel testamento la regina aveva chiesto che ne erigessero uno in onore suo e della madre <<a degna memoria di noi>>, ma nessuno si curò di questo desiderio. Il giorno della sua morte, il 17 novembre, lo stesso dell'ascesa al trono della sorella Elisabetta, fu considerato festività nazionale per due secoli; e, prima ancora della scomparsa della generazione che l'aveva acclamata sovrana la contrapposizione tra <<l'oscurità, la brevità e l'odiosità>> del suo regno e <<la gloria, la lunghezza e la prosperità>> di quello di Elisabetta I sarebbe diventata un luogo comune degli storici. Le generazioni successive la chiamarono <<Maria la sanguinaria>> e giudicarono gli anni del suo governo sulla traccia delle illustrazioni del Book of Martyrs (libro dei martiri) di John Foxe: immagini di protestanti buttati in carcere, straziati da ferri alle gambe, brutalmente percossi da feroci aguzzini cattolici e tuttavia sempre assorti in preghiera nell'attesa dell'esecuzione, i volti già illuminati dall'estatica visione del paradiso.


Elisabetta I d'Inghilterra

Maria, in realtà, era un'insperata superstite di infinite sventure sopravvissuta a un'adolescenza travagliata e a vari malanni, al lento supplizio della madre, alle capricciose torture del padre, aveva poi corso micidiali pericoli durante il regno del fratello. Edoardo VI, e aveva infine ottenuto il trono quando le probabilità di vittoria erano tutte contro di lei. I contemporanei videro nella sua trionfale proclamazione una specie di miracolo, ed ella stessa si era da tempo convinta di avere avuto in sorte da Dio il compito di ricondurre l'Inghilterra in seno al cattolicesimo.

Maria regnò con la piena consapevolezza della maestà dei Tudor, facendo fronte con capacità e coraggiosi rischi di una grave crisi economica, di una rivolta civile e di una sommossa religiosa. La sua duttilità stupì gli uomini che la circondavano.

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domenica 24 luglio 2016

La Valacchia, nodo strategico e commerciale. La crisi successorria del 1420. Dracula Vlad III

L'ESILIO COME STILE DI VITA



La Valacchia, nodo strategico e commerciale

Nel 1417, Mircea aveva costituito oppure rafforzato molte piazzeforti sul Danubio, nei principali punti di passaggio del fiume. La più importante tra esse, Giurgiu, situata a sessanta chilometri a sud di Bucarest, cli era costata un'immensa fortuna: per ogni pietra del castello il principe aveva pagato l'equivalente di un blocco di sale di oltre cento chili, tanto la pietra era rara nella regione.

Con la piazzaforte di Chilà, ex insediamento genovese sulla foce del Danucio (contestato dalla Moldavia) <<con il porto danubiano di Bràila, il più importante del paese fino alla Transilvania del sud, dove la città di Brasov (Kronstadt), abitata dai tedeschi, disponeva del diritto di deposito e di sosta che la aveva conferito Luigi d'Angiò, e poi, alcune decine di chilometri a est sempre in Transilvania meridionale, con la città sassone di Sibiu (Hermannstadt), ultima tappan della via che partendo da Salonicco raggiungeva Nicopoli sul danubio passando da Serres e da Sofia, la Valacchia confermava il suo ruolo internazionale di guardiana della strada commerciale che collegava l'Asia attraverso il Mar Nero. Lungo queste vie i mercanti transilvani e valacchi, e più tardi quelli levantini (turchi e balcanici), ma anche quelli genovesi e veneziani, trasportavano le spezie e le sete orientali che scambiavano con le stoffe, i velluti e gli oggetti di ferro occidentali.

La crisi successoria del 1420



Il regno di Michele I durò solo due anni. Nell'aprile - maggio del 1420 un esercito turco attaccò la Valacchia e Michele prese la vita in battaglia. Fu il primo principe a cadere contro gli Ottomani; nel corso del secolo altri due subiranno la stessa sorte. Al suo posto Maometto I insediò un altro figlio, questa volta illegittimo, di Mircea il Vecchio.

Fino ad allora la successione era stata risolta in due modi. Il più antico era la coreggenza del principe regnante (che portava il titolo di gran voivoda) con il primogentio, presumibilmente in qualità di voivoda d'Oltenia. Questo fu nello specifico il caso di Basarab I, che nel 1342 condivise il trono con il figlio Nicola Alessandro, e anche di Mircea il Vecchio che a partire dal 1391 fece lo stesso con Michele. Tra queste due date la compartecipazione al trono della Valacchia fu, a due riprese, una questione tra fratelli, l'ultima delle quali, nel 1385, fu quella di Dan I con Mircea il Vecchio. La morte di Dan in un conflitto contro i Bulgari fece di Mircea l'unico principe regnante fino al momento in cui egli associò al trono il proprio figlio.

Nel 1395, approfittando dell'assenza di Mircea (si era rifugiato in Transilvania dopo aver subito una disfatta con i Turchi), il figlio di Dan, chiamato Vlad, si fece proclamare voivoda (Vlad I), ma regnò solo nell'Ovest del paese, in Oltenia. Vlad era sostenuto da Bayezid I, il sultano ottomano, e si opponeva all'alleanza troppo stretta tra il suo paese e l'Ungheria.

A partire dal 1420 il trono del paese divenne la posta in gioco delle lotte intestine fra i discendenti di Dan I e di Mircea, soprannominati anche i Dracula (Dràculesti, in romeno). In primi si appellarono al re d'Ungheria e ai nobili transilvani, i quali eano ben contenti di garantirsi la fedeltà e l'alleanza dei principi della Valacchia custodi dei passaggi nei Carpazi. I secondi erano aiutati dai Turchi, i quali disponevano di teste di ponte a nord del Danubio, fortezze inespugnabili che, accanto ai soldati regolari, albergavano bande d'irregolari <<razziatori e incendiari>> (akingis).

La grande aristocrazia del paese - i boiardi, che formavano la classe politica per eccellenza - si divideva anch'essa tra le due potenze vicine e rivali. Coloro che possedevano i domini vicino al Danubio tendevano a favorie i Turchi per paura di vedere i loro beni saccheggiati e distrutti. Gli altri, proprietari nella zona delle colline a sud dei Carpazi, erano in buoni rapporti commerciali con le città della Transilvania e sostenevano i principi nominati dal re d'Ungheria. Tuttavia, una volta insediato sul trono, un principe appoggiato dagli ottomani non poteva ignorare l'importanza delle reazioni di buon vicinato con la Transilvania e si affrettava a concludere trattati commerciali e amichevoli con le città sassoni di nBrasov e Sibiu.

Le difficoltà si presentavano allorché le bande di predoni turchi facevano razzie in Transilvania. In questi casi il principe valacco faceva spesso il doppio gioco, congiungendo le proprie forze a quelle dei Turchi ma avvisando segretamente i Transilvani delle intenzioni dei nemici. Inoltre, i sultani ottomani avevano preso l'abitudine di esigere degli ostaggi in graanzia dei giuramenti di fedeltà dei Valacchi. Uno o più figli del principe e dei principali boiardi del paese venivano quindi trattenuti ad Adrianopoli o a Brasov, più tardi a Instanbul, e venivano educati alla turca.

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sabato 23 luglio 2016

Mircea il Vecchio. Il pericolo ottomano. Da Dracula. Vlad III

Mircea il Vecchio


Mircea il Vecchio


Mircea è stato senza dubbio il più importante principe valacco del XV secolo, ma il suo regno fu costantemente minacciato dall'ascesa degli Ottomani nella penisola balcanica. Questi ultimi si erano affermati in Europa tra il 1347 e il 1354. Favoriti dalla debolezza degli stati balcanici e dall'afflusso dei ghazi, guerrieri della fede turchi dell'Asia minore, non tradarono a impossessarsi di territori enormi a scapito di Bizantini, Serbi e Bulgari. Nel 1389, dopo la vittoria di Kosovo, assoggettarono la maggior parte dello Stato serbo e, sette anni dopo, trasformarono la Bulgaria in provincia ottomana.

Nella stessa epoca una crociata supportata in special modo da Francesi e Borgognoni fallì miseramente a Nicopoli (1396). Gli orgogliosi cavalieri francesi avevano rifiutato con sdegno la proposta di Mircea il Vecchio di attaccare in prima linea, una proposta dovuta al fatto che egli conosceva bene i Turchi per averli affrontati più volte tra il 1394 e il 1395. La carica di artiglieria pesante francese, considerata invincibile, risultò inefficace davanti alle manovre della cavalleria leggera turca, che aveva sfondato le linee nemiche e preso la fuga.

Il pericolo Ottomano


Tamerlano


Nel 1402 Timur lenk (Tamerlano), il Khan mongolo dell'Asia, sconfisse l'esercito di Bayezid nella battaglia d'Angora (Ankara) e fece progioniero il sovrano ottomano. Il suo impero minacciava di disgregarsi ma la miopia politica dei Bizantini e degli altri popoli balcanici, unita alla real politik delle repubbliche marinare di Genova (grande alleata dei turchi) e di Venezia, lo tirò fuori dai guai. Dopo un decennio di guerre tra i figli di Bayezid, il trono venne occupato da Maometto I (1413 - 1421), il quale proseguiva la politica di conquista del padre. Nel 1417 il sultano prese le armi contro Mircea il Valacco che aveva aiutato i suoi avversari e si era impossessato della Dobrugia (Dobrudja) provincia situata tra il basso Danubio e il Mar nero. Mircea, sconfitto, dovette cedere la provincia e impegnarsi a pagare un tributo (Kharacht) agli Ottomani. Un anno più tardi il principe della Valacchia moriva dopo trentadue anni di regno, lasciando il trono al figlio coreggente Michele (Mihail).


Mihail

Nel 1417, la Valacchia pagò un tributo ai Turchi, il tributo permetteva di mantenere la pace con gli Ottomani. A quei tempi la dottrina dell'islam, quando si trattava di cristiani, conosceva solo paeesi conquistati oppure paesi (o territori) <<della guerra>>, cioè da conquistare. Con questi ultimi si potevano concludere solo tregue, non trattati di pace. I paesi tributari rappresentavano quindi una situazione intermedia e, agli occhi dei Turchi, di stasi. Finché l'intesa durò, i mercanti e i sudditi cristaini della Vlacchia ebbero il diritto di percorrere liberamente il vasto territorio ottomani, di comprare e vendere mercanzie pagando una tassa chiamata gumruk (dal latino commercium, passato poi al greco kommerkion) pari al due per cento del valore delle mercanzie, da versare una sola volta all'entrata e all'uscita dell'Impero.

Nel caso della Valacchia, una buona parte dei redditi del ntesoro principesco proveniva anche dalle tasse sulle merci in transito che circolavano tra l'impero ottomano e la Transilvania. Garantirsi la pace con i Turchi significava  quindi matenere aperte le vie del commercio internazionale. Quest'obbligo inoltre, non implicava nessuna situazione di dipendenza nei confornti del sultano. I più antichi trattati fra i Turchi e i Valacchi, andati perduti, includevano però una clausola di questo tenore: <<amici dei nostri amici e nemici dei nostri nemici>>.

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venerdì 22 luglio 2016

La dinastia dei Basarab. L'esilio come stile di vita. Dracula, Vlad III. Di Matei Cazacu

La dinastia dei Basarab


Basarab


Vlad Dracula nacque in una data compresa tra il 1429 - 1430 e il 1436, molto verosimilmente a Schassburg, l'odierna Sighisoara, una città tedesca situata al centro dell'attuale Romania, nella provicia della Transilvania. La città venne menzionata per la prima volta nel 1280 (Castrum Sex), poi nel 1298, apparve la prima forma Schassburg. Soprannominata <<la Norimberga Sassone>>, Sighisoara divenne famosa nel 2003 quando il ministero del Turismo romeno annunciò il progetto di creare una Draculaland nei suoi dintorni. Dopo numerose proteste il progetto venne abbandonato. La cittadella ha conservato le mura di cinta, le torri di guardia, le viuzze strette e le dimore del XV e XVI secolo.

La casa natale di dracula, una costruzione massiccia e priva di grazia, esiste ancora nella città vecchia (o città alta), come infatti attesta una targa affissa nel 1976. Prima di questa data la casa era nota soltanto perché tra il 1433 e il 1436 fungeva da Zecca, Gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che Vlad l'Impalatore sia nato durante l'esilio del padre in Transilvania. E' anche risaputo che tra il 1431 e il 1436 Vlad Dracul aveva come fonte di reddito il conio delle monete a Sighisoara... C'è dunque una forte probabilità che Vlad sia anto in questa casa, anche se ciò non basta a giustificare l'assenza, sulla targa commemorativa del 1976, di ogni elemento di dubbio.

Sappiamo comunque che nel 1442 suo fratello maggiore, Mircea, il primogenito, aveva tredici o quattordici anni. Poiché Mircea era nato nel 1428 - 1429, possiamo ragionevolmente dedurre che suo fratello non possa essere nato prima del 1429 - 1430. Inoltre, una volta salito sul trono della Valacchia, il padre menziona i figli <<nati primi>> in un documento datato 10 agosto 1437. Tutti questi elementi giocano a favore di Sighisoara.

Nel 1330, quando Basarab occupò la fortezza di severino sul Danubio, in Oltenia, il re gli ingiunse di cedergliela. Dinnanzi al rifiuto del principe valacco, Carlo Roberto intraprese una campagna militare e minacciò il vassallo <<pastore delle mie pecore>>, di trarlo per la barba fuori dalla sua tana. Quando il re invase la Valacchia con il suo esercito, l'abile Basarab negoziò un trattato di pace secondo cui rinunciava alla sua conquista e s'impegnava a pagare 7.000 marchi d'argeno di risarcimento, una somma considerevole poiché equivaleva a una tonnellata e mezzo d'argento, 74 chili d'oro e 21.000 fiorini d'oro. Questa promessa convinse il re d'Ungheia a far dietro front e a lasciare sul tronon l'irrequieto vassallo, non prima però di aver incendiato la sua residenza di Curtea de Arges, nelle colline dei Carpazi. In una gola di quegli stessi Carpazi, però, le truppe di Basarab attaccarono di sorpresa l'esercito ungherese che, accerchiato da ogni parte, subì pesanti perdite (9-11 novembre 1330). Il re dovette la propria salvezza al solo fatto di essersi scambiato l'armatura con quella di un vassallo.


Luigi I


I rapporti conflittuali tra i due stati continuarono sotto il regno del figlio e successore di Carlo Roberto. Luigi I il Grande (1342 - 1382). Il nuovo re intendeva imporre al vassallo gli obblighi derivanti dal diritto feudale occidentale; gli sforzi della controparte, invece, erano volti a manrenere un'ampia utonomia interna, anche a costo di pagare un tributo e rendere dei servigi (angarie) al suo signore. Alla morte di Basarab, nel 1352, gli successe il figlio Nicola Alessandro, il che provocò l'irritazione di Luigi I. Il re d'Ungheria riteneva di essere l'unico a poter nominare il voivoda della Valacchia, cosa che Nicola Alessandro, designato correggente al trono da suo padre ed eletto dalla nobiltà, rifiutava categoricamente. Accettava solo la conferma della scelta delle forze vive del paese.
Nicola Alessandro, nel 1359 chiese e ottenne dal patroarcato di Costantinopoli, l'altra grande fonte di legittimità dell'Europa meridionale, la creazione di una sede ecclesiastica in Valacchia. Il patriarca concesse al principe valacco il titolo di <<autocrate>>, di pari passo con l'innalzamento dello statuto della Chiesa del suo paese al rango di metropoli. In tal modo la Valacchia entrava definitivamente nell'area della cristianità orientale, o dell'ortodossia, e abbandonava ogni velleità di apartenere alla Chiesa cattolica, una scelta che avrebbe avuto conseguenze di grave portata. In quello stesso anno un altro principe romeno, fuggito dalla Transilvania del nord, scacciò il voivoda dalla Moldavia, fedele vassallo di Luigi I, e riuscì a stabilirsi sul trono nonostante la campagna militare organizzata contro di lui dal re.

Ogni volta che sul trono della Valacchia si avvicendava un nuovo principe, Luigi I e poi il suo genero e successore Sigismondo di Lussemburgo (1387 - 1437) espressero la pretesa di nominare i nuovi principi romeni, che ora portavano il titolo di <<voivoda e signore>>, dunque duca, capo dell'esercito e principe. Questa pretesa rimase lettera morta in occasione dell'elezione di Mircea il Vecchio (1386 - 1418), nonno di Vlad Dracula. Con la morte di Luigi I, infatti, una crisi legata alla sua successione colpiva ancora una volta l'Ungheria.

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giovedì 21 luglio 2016

Dracula. Vlad III. L'esilio come stile di vita. Una fortezza sull acqua. Di Matei Cazacu

L'ESILIO COME STILE DI VITA

<<Una fortezza sull'acqua>>


Sighisoara. Casa di Dracula


Vlad Dracula nacque in una data compresa tra il 1429 - 1430 e il 1436, molto verosimilmente a Schassburg, l'odierna Sighisoara, una città tedesca situata al centro dell'attuale Romania, nella provicia della Transilvania. La città venne menzionata per la prima volta nel 1280 (Castrum Sex), poi nel 1298, apparve la prima forma Schassburg. Soprannominata <<la Norimberga Sassone>>, Sighisoara divenne famosa nel 2003 quando il ministero del Turismo romeno annunciò il progetto di creare una Draculaland nei suoi dintorni. Dopo numerose proteste il progetto venne abbandonato. La cittadella ha conservato le mura di cinta, le torri di guardia, le viuzze strette e le dimore del XV e XVI secolo.


La casa na tale di dracula, una costruzione massiccia e priva di grazia, esiste ancora nella città vecchia (o città alta), come infatti attesta una targa affissa nel 1976. Prima di questa data la casa era nota soltanto perché tra il 1433 e il 1436 fungeva da Zecca, Gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che Vlad l'Impalatore sia nato durante l'esilio del padre in Transilvania. E' anche risaputo che tra il 1431 e il 1436 Vlad Dracul aveva come fonte di reddito il conio delle monete a Sighisoara... C'è dunque una forte probabilità che Vlad sia anto in questa casa, anche se ciò non basta a giustificare l'assenza, sulla targa commemorativa del 1976, di ogni elemento di dubbio.


Sighisoara

Sappiamo comunque che nel 1442 suo fratello maggiore, Mircea, il primogenito, aveva tredici o quattordici anni. Poiché Mircea era nato nel 1428 - 1429, possiamo ragionevolmente dedurre che suo fratello non possa essere nato prima del 1429 - 1430. Inoltre, una volta salito sul trono della Valacchia, il padre menziona i figli <<nati primi>> in un documento datato 10 agosto 1437. Tutti questi elementi giocano a favore di Sighisoara.

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mercoledì 20 luglio 2016

Dracula. Vlad III. Introduzione di Matei Cazacu

INTRODUZIONE


Mattia Corvino

Verso la metà di giugno del 1463, la cittadina di Wiener Neustadt, situata a cinquanta chilometri a sud di Vienna, resiednza perdiletta dell'imperatore Federico III d'Asburgo (1440-1493), si ritornò al centro dell'attenzione di tutta l'Europa. Una delegazione ungherese formata da tremila cavalieri, un vero piccolo esercito, si presentò per concludere la pace tra l'imperatore e il suo più coriaceo avversario, il giovane re d'Ungheria Mattia Corvino. La guerra fra i due sovrani imperversava da cinque anni. La posta in gioco era la corona d'Ungheria. Alla morte di Ladislao il Postumo (1457), Federico III, suo tutore, si era fatto proclamare re d'Ungheria dai grandi del regno desiderosi di mantenere il loro paese nell'Impero: ciò a dispetto del fatto che un'altra parte della nobiltà ungherese avesse già eletto come <<re nazionale>> un giovane di quindici anni, Mattia, figlio dell'ex governatore Giovanni Hunydai. A quell'epoca Federico III era in guerra con il re di Boemia Giorgio Podebrad, accusato di simpatizzare  per gli eretici hussiti. La strategia dell'imperatore consisteva nel mantenere sotto la propria tutela i due regni situati l'uno di fronte all'altro, ricchi di giacimenti minerari d'oro e d'argento, mentre i due re, forti dell'appoggio della propria nobiltà e della propria borghesia, rifiutavano questa soluzione che aveva l'effetto di drenare le risorse dei loro paesi nella casse del tesoro imperiale.

Il giovane Mattia, nobile per nascita, discendeva da parte di padre dalla piccola nobiltà valacca (romena) di Transilvania, la più ricca delle provincie ungheresi ma anche la più esposta ai pericoli esterni. Suo padre, Giovanni Hunydai, era nato Iancu (Ianko) di Hunedoara; aveva imparato il mestiere delle armi al servizio del duca Filippo Maria Visconti e, grazie al matrimonio con una nobile ungherese, era asceso al potere diventando reggente del regno e voivoda (governatore) della Transilvania durante la minore età di Ladislao il Postumo (1444-1458).

Giovanni Hunydai aveva difeso il paese contro gli Ottomani, portando anche la guerra sul loro territorio. Volta a volta vincitore e vinto di una lotta incessante durata oltre quattordici anni, morì da eroe difendendo, con Giovanni da Capistrano, la fortezza di Belgrado - all'epoca ungherese - dagli assalti di Maometto III il Conquistatore (1456). Lasciò due figli: il primogenito, accusato di complottare contro il suo sovrano: fu fatto decapitare dal re Ladislao. Mattia dovette invece la salvezza alla sua giovane età.


Giovanni Hunydai

Mattia venne proclamato re dai partigiani dello zio materno e dai suoi alleati. Tuttavia, per godere appieno della totale legittimità regale, aveva bisogno della Santa Corona ungherese, detenuta dall'imperatore. Questa corona era un simblo forte per il popolo ungherese. Ornata di due diademi, il primo inviato dal papa Silvestro II nell'anno Mille al primo re cristiano d'Ungheria, il secondo dall'imperatore di Bisanzio in data più tarda, la corona era il simbolo dell'unità del paese e non poteva essere sostituita da nessun' altra.

Scoppiò la guerra, nonostante gli appelli alla pace da parte del papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) che necessitava di soldati per lan crociata indetta contro i turchi nel 1459. Infine, dopo cinque anni di lotta sterile, di negoziati e di intrighi, i belligeranti s'incontravano per concluedere la pace. L'accordo prevedeva che l'imperatore ricevesse 80.000 ducati d'oro per il riscatto della corona, che Mattia desse prova della massima deferenza considerandolo come un <<padre>>, che i due sovrani s'impegnassero a rimanere alleati contro i rispettivi nemici e, soprattutto, che la corona tornasse nelle mani dell'imperatore se il re d'Ungheria fosse morto senza eredi legittimi.

Il fratello stesso dell'imperatore Alberto d'Asburgo, duca d'Austria, faceva parte dei cospiratori, tagliava le linee di comunicazione e incitava ai saccheggi intorno alle residenze di Wiener Neustadte di Eedenburg, rendendole ancora più insicure. Persino l'imperatrice, Eleonora del Portogallo, venne depredata da un signorotto che le avrebbe rubato le camicie in puro lino! Malgrado questa situazione instabile, Federico protrasse i negoziati adducendo sempre nuove richieste. Ci volle l'intervento energico dei rappresentanti del papa, Rodolfo di Rudersheim, priore di Freising, e Domenico dè Domenichi di Lucca, arcivescovo di Torcello, affinché il trattato venisse suggellato il 19 e il 20 luglion 1463, il denaro fosse versato e la corona finalmente ceduta a Mattia Corvino.

Dracula era il soprannome del principe della Valacchia Vlad III un vassallo di Mattia Corvino, che nel 1462 quest'ultimo aveva fatto arrestare e rinchiudere in una fortezza sul Danubio. L'origine del soprannome è tuttora discussa. Per la maggior parte dei ricercatori starebbe a indicare l'ppartenenza del padre, Vlad Dracul, all'ordine del Dragone (Societas draconistrorum), fondato nel 1408 dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo quand'era soltanto re d'Ungheria. Poiché dal latino draco deriva il romeno drac, con il significato di <<diavolo>>, Dracul sarebbe quindi <<il diavolo>>, e Dracula (nella forma popolare Dràculea) <<figlio del diavolo>>. Secondo altri studiosi, invece, il soprannome Dracul, diavolo, andrebbe piuttosto inteso conn un significato vicino a quello dell'espressione <<diavolo d'un uomo>>.


Vlad III. Il pranzo sotto ai pali

Era un tiranno, che superava dib crudeltà Erode, Nerone e Diocleziano, come anche ogni altro tiranno e torturatore mai esistito. Lo spurio elenco dei dolori e delle torture inflitti da Dracula ai suoi sudditi, ma anche ad altre persone - <<pagani, ebrei, cristiani>>, turchi, ebrei, turchi, tedeschi, italiani, zingari - non poteva lasciar indifferente nessun lettore. E, primo fra tutti, il su supplizio preferito, il palo. probabilmente di orgine assira, questa torutra era stata <<perfezionata>> con l'utilizzo di pali non più acuminati, che uccidevano rapidamente i pacients, ma arrotondati e spalmati di grasso per prolungare il supplizio. Introdotto attraverso i retto, il palo, sul quale poggiava tutto il peso del corpo della vittima, si apriva un varco senza ledere vitali e usciva dalla bocca senza provocare la morte. L'infelice, esposto in tal modo, moriva di sete entro due o tre giorni, con gli occhi divorati dai corvi ma ancora in possesso delle sue facoltà. L'autore racconta come Dracula avesse piantato un a foresta di pali lunga tre chilometri e larga più di un cholometro proprio sotto le finestre del suo palazzo, al fine di poter ammirare a piacimento gli spasimi delle vittime. Ai gran signori e pascià turchi <<erano riservati>> pali pù alti della media e interamente dorati! Si aggiungeva che spesso il principe amava consumare i pasti a un tavolo situato all'ombra dei pali, da dove conversava con i <<convitati>> e brindava alla loro salute.


Impalamento

Impalatore di uomini: donne e bambini a migliaia (a volte donne con in braccio il loro neonato), ai quali vanno aggiunti 25.000 turchi, uno zigano bollito in un calderone che la sua tribù aveva dovuto mangiarsi; una concubina del principe, incinta, sventrata affinché egli potesse vedere dove si trovava il frutto del proprio seme; un bachetto durante il quale Dracula aveva fatto servire ai nobili i gamberi nutriti con il cervello dei loro parenti e amici; morte sul rogo per tutti i mendicanti e gli storpi del paese; madri costrette a mangiare i loro figli arrostiti; mariti obbligati a fare lo stesso con i seni tagliati delle mogli. Il cinismmo e il sarcasmo di Dracula nei confronti delle sue vittime rendevano queste atrocità ancor più intollerabili. Quando urlavano sotto tortura, Dracula esclamava: <<Udite che piacevole passatempo, che diletto!>>. Oppure, davanti allo spettacolo degli impalati che si controcevano: <<Oh! Come ti agiti bene, che abilità, che ritmo!>>. Ai poveri e ai mendicanti che fece bruciare in due grandi capannoni disse di volerli aiutare a raggiungere al più presto il paradiso, affinché smettessero di soffrire sulla terra.

Mattia Corvino il quale, preoccupato per le lamentele delle vittime e dei loro parenti, fece attraversare il suo vassallo e metterlo ai ceppi. Il primo testo, probabilmente in latino, fu inviato al papa, a Venezia e ad altri principi. E' ancora conservato, tradotto in tedesco, in quattro copie manoscritte indipendenti ed è stato inserito in molte opere dell'epoca.

L'opuscolo del 1463, realizzato probabilmente a Vienna da uno stampatore itinerante (forse Ubrich Ham), venne copiato, adattato e poi ristampato tra il 1488 e il 1566 nelle principali città tedesche, a Lipsia e Amburgo fino a Strasburgo e Norimberga. Tutti gli esemplari contengono un ritratto di Dracula o una scena della sua vita (il pranzo sotto i pali). nel frattempo, dall'altra parte dell'Europa, una versione russa indipendente iniziò a circolare a partire dal 1486: non venne mai stampata, per quanto ci è dato sapere, ma ebbe almeno ventidue copie manoscritte. Dracula venne presentato come un sovrano severo ma giusto e colto. In qualche modo un modello per Ivan il terribile, che dovette leggere il racconto con profitto poiché imitò alcune delle torture elaborate dal principe romeno.
Paradossalmente, nel suo paese d'origine, la Valacchia, oggi parte meridionale della Romania, il ricordo delle gesta di Dracula andò perduto nel corso dei secoli. Anche la cronaca ufficiale della Valachia, redatta nel XVI secolo e rimaneggiata nel secolo seguente, si limitò solo a menzionare il principe sanguinario. Sussistevano se mai dei racconti (sconosciuti nelle versioni latine, tedesche e russe) riguardanti il suo castello nei Carpazi meridionali (castello di Poienari). I contadini dei sette villaggi dei dintorni godevano di importanti privilegi fiscali in cambio della guardia e della manutenzione di quel <<nido d'acquila>> situato al confine con la Transilvania. Il ricordo del principe siè tramandato fino ai nostri giorni grazie alla fortezza che colpèiva l'immaginazione e manteneva vivo il ricordo del suo fondatore.

Quando gli studiosi romeni moderni scoprirono a loro volta questi testi, si trovarono davanti a un dilemma: pur essendo estremamente crudele, quel principe aveva dato prova di un coraggio eccezionale di fronte all'esercito di Maometto II il Conquistatore. Di eroi del genere ce n'erano stati pochi, nel passato romeno. Che fare? Come conciliare i due volti del personaggio? Alla fine, dopo molte esitazioni, Dracula - o meglio Vlad l'Impalatore - venne inserito tra gli eroi nazionali che avevano difeso l'indipendenza della Romania, diventata Stato Nazionale nel 1918 attraverso l'unione della Valacchia e della Moldavia con la Transilvania. Nel 1976 Nicolae Ceausescu celebrò anche il cinquecentesimo anniversari della morte di Vlad III.

Un'altra preoccupazione sarebbe andata però ad aggiungersi a quelle che già avvelenavano la vita dell' ex dittatore. Nel 1972 due storici americani, Radu R. Florescu e Raymond T, Mc Nally, avevano pubblicato a Boston In Search of Dracula, un'opera che collegava il personaggio storico (ancora sconosciuto in Occidente) al padre di tutti i vampiri moderni. Immortalato, se così si può dire dallo scrittore irlandese Bram Stoker nel 1897, il vampiro dracula, conte dei Carpazi, aveva conquistato da tempo l'Ompero britannico e il mondo intero, invaso le biblioteche, le scene dei teatri e i palcoscenici di Hollywood. Portato sullo schermo da Bela Lugosi (peraltro originario della Transilvania) da Lon Chaney jr. da Christopher Lee e più recentemente da Gary Oldman nel film fi Francis Ford Coppola, il vampiro metteva decisamente in ombra - anche se i vampiri di ombra non ne fanno! - Vlad l'Impalatore.


Dracula. Gary Oldman


Dracula. Christopher Lee

Queste credenze sono invece esisite ed esistono tuttora in romania, come ha dimostrato Ioana Andreesco nel suo libro Où sont passés les vampires? Così come sono esistite nei Balcani e nella Grecia insulare, in Ungheria e in Slovacchia, in Boemia, in Moravia, in Ucraina e in Russia. Fu da questo terreno fertile che Bram Stoker attinse la sua figura del vampiro. Ne fece, per primo, un aristocratico orienrtale dal cognome storico, reincarnazione, affermava, del valoroso principe del XV secolo, il quale, a dire il vero non aveva bisogno di questa nuova trasformazione per mettere paura. A partire dal XVIII secolo il vampirismo incominciò ad interessare gli occidentali, perché s'inseriva nel dibattito più ampio riguardante i segni esteriori della morte, la morte apparente, la morte imperfetta e le questioni inerenti alla sepoltura all'esterno delle città. E anche la necessità del certificato medico di decesso per il quale si sono adoperati studiosi francesi come l'anatomista Jacques - Bénigne Winlow (1996-1740) e il suo discepolo Jean Jacques Bruhier d'Ablaincourt (1685-1756), la cui pera è stata restituita con talento ed erudizione da Claudio Milanesi.


Maometto II

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