martedì 24 ottobre 2017

Dracula. La campagna del 1445 sul Danubio, Il conflitto con Giovanni Hunyadi e la morte di Vald Dracul, Vladislav II sul trono della Valacchia

Dracula 


Vladislav II


La campagna del 1445 sul Danubio 

Mircea comandava un corpo di spedizione che seguiva le galere a cavallo, lungo le rive del Danubio e, quando ve n'era bisogno sulle piroghe monoxile, barche scavate in un tronco d'albero. Si trattava dello stesso genere di imbarcazioni che nel 32 a.C. Alessandro Magno aveva trovato sulle rive del Danubio e che neli anni Sessanta si potevano ancora vedere in Romania! Wavrin le chiama manocques e dice che sembrano <<come una ghianda lunghe e strette, e dentro c'erano molti Valacchi, in una più, in un'altra meno>>. 
Durante questa campagna vennero assediate le piazzeforti di Silistra (Dristra), Turtucania (Tour Turcain), Gurgiu, Rusciuc (Rossico) e Nicopoli. I romeni esultarono vedendo i danni causati sa un'enorme bomabarda borgognona. Purtroppo quando i Borgognoni gliel'affidarono affinché continuassero a tirare, i Valacchi la fecero esplodere. 

A Rusciuc 12.000 Bulgari, uomini, donne e bambini, chiesero al principe della Valacchia di potersi stabilire nel suo paese, e Vlad Dracul acconsentì senza problemi. Inoltre, Vlad attraversò il Danubio per scacciare i soldati chhe volevano ostacolarli e chiese alle galere di far loro attraversare il fiume. L'operazione durò tre giorni e tre notti e i Borgognoni stupiti  dal loro aspetto, <<dicevano che erano gente simile agli Egiziani>>. Si trattava di Zigani. Vlad Dracul, il cui paese in certe zone era poco popolato, fu oltremodo contento dell'esito di questa campagna. 
A Giurgiu, conquistata quasi intatta, la situazione divenne drammatica. I Turchi avevano accettato di arrendersi a condizione di potersi tenere le armi e aver salva la vita. Fu allora che Mircea chiese un colloquio privato con Walerand de Wavrin, al quale confidò che il subasi che aveva ingannato suo padre con un falso giuramento e causato la sua cattura nel 1442 si trovava tra gli assediati. 

Dopo aver attaccato i loro cavalli per la coda i Turchi attraversarono il Danubio con le monoxile e arrivarono alla riva bulgara. I Turchi, dunque, oltrepassata l'acqua, montarono sui loro cavalli. Ma non avanzarono quasi che il suddetto figlio della Valacchia li sorprese con la sua imboscata e li mise tutti a morte. E il subasi che aveva tradito suo padre venne portato al suo cospetto ancora vivo. Dopo che gli ebbe recitato il tradimento, gli troncò la testa con le sue stesse mani. Poi non appena i Valacchi ebbero spogliato i Turchi dei loro averi, li disposero tutti nudi sulla riva del fiume. 

Il 12 settembre le galere giunsero a Nicopoli. L'appuntamento con l'esercito ungherese era stato fissato per il 15 agosto, ma Giovanni Hunyadi non si era ancora presentato. Venne allora deciso di assediare Nicopoli e di radere al suolo una grande torre che aveva albergato le truppe di akindjis quando razziavano la Valacchia. Wareland de Wavrin, malato e ferito, era costretto a letto. Fu in questo frangente che il precettore del principe Mircea si recò da lui e gli riferì i suoi ricordi della crociata del 1396: 
"E mentre le bombarde infuriavano, il precettore del figlio della Valacchia, che aveva ottant'anni, andò a trovare il signor de Wavrin e gli disse: <<Sono passati circa 50 anni da quando il re d'Ungheria e il duca Giovanni di Borgogna (Giovanni Senza Paura) assediarono questa città di Nicopoli, e il luogo della battaglia si trova a meno di tre leghe da qui. Se riuscite ad alzarvi e a venire a questa finestra vi mostrerò il luogo e come avvenne l'assedio>>. Allora il signor de Wavrin si fece portare alla finestrella. Ed egli raccontò al signo de Wavrin come si svolse tutta la battaglia, e come venne fatto prugioniero dei Turchi, e venduto schiavo ai Genovesi, dove aveva appreso la lingua che parlava."

Giovanni Hunyadi con un breve consiglio di guerra decise di abbandonare l'assedio di Nicopoli, che rischiava di andare per le lunghe, e di risalire il Danubio fino al suo confluente Jiu, dove gli Ungheresi avevano approntato delle imbarcazioni a fondo piatto per la traversata di uomini, armi e cavalli. La stagione era avanzata, il giorno di san Michele (29 settembre) si stava avvicinando, e gli Ungheresi erano ancora intenzionati as andare a combattere i Turchi. Infine le truppe del sultano, ammassate sulla riva destra del Danubio, si ritirarono bruciando tutto alle loro spalle. 

Senza altro grandi confronti si concluse la campagna del 1445, condotta dalla flotta borgognona e dall'esercito valacco. Giovanni Hunyadi suggerì che le galere partissero in tempo per evitare i ghiacci del Danubio (era il 1 ottobre9, dopo do che gli Ungheresi si ritirarono in Transilvania. Walerand de Wavrin e i suoi compagni arrivarono sani e salvi a Costantinopoli, dove l'imperatore Giovanni VIII Paleologo fece loro una buona accoglienza e offrì dei regali. Da lì raggiunsero Venezia dalla quale partirono a cavallo per Roma, e infine Lilla, dove il duca di Borgogna apprese la loro odissea. 

Il conflitto con Giovanni Hunyadi e la morte di Vald Dracul

Vlad Dracul rimase isolato davanti a un'eventuale reazione dei Turchi, che però non avvenne. Murad II si era ritirato in Asia minore e aveva affidato le faccende dell'Europa al figlio Maometto, il futuro conquistatore di Costantinopoli. Murad II tornò a occuparsene nell'autunno del 1446 e avendo firmato un trattato di pace con Venezia, ebbe le mani libere per combattere in Grecia nell'inverno del 1446-1447. Il sultano passò l'estate seguente ad Adrianopoli e Vlad Dracul, sempre in cattivi rapporti con Giovanni Hunyadi, decise di fare nuovamente la pace con i Turchi. Il trattato ristabilì la situazione del 1444 e il principe valacco dovette rimandare in Bulgaria quattromila rifugiati. 

Nel giugno del 1446 la Dieta aveva eletto giovanni Hunyadi governatore generale dell'Ungheria in nome del re minorenne Ladislao il Postumo, il quale non aveva ancora compiuto nemmeno sette anni. Con questo nuovo titolo Hunyadi si stava accingendo a un'impresa di grande portata contro i Turchi e la defezione di Vlad Dracul dovette profondamente irritarlo; non tanto per il fatto in sé, riteniamo, bensì per l'espressione d'indipendenza della Valacchia nei confronti dell'Ungheria che rappresentava quest'iniziativa di politica estera. E' vero che, formalmente, tra l'Ungheria e l'Impero ottomano sussisteva uno stato di guerra, anche se, al mommento, i due avversari si limitavano a osservare i rispettivi movimenti. 

Un'altra ragione alimentava il conflitto tra Hunyadi e Vlad Drcul, e andava al di là delle opzioni strategico-politiche toccando il cuore stesso dei loro interessi: si trattava del problema della circolazione monetaria tra i due paesi. Infatti, a partire dal 1383-1386, i principi della Valacchia avevano allineato le loro monete a quelle ungheresi: il ducato e il ban valacchi d'argento valevano rispettivamente un denier (dinato) e una obola ungheresi. Quest'elemento era un indubbio simbolo di vassallaggio poichè, nello stesso periodo, la vicina Moldavia, vassalla della Polonia, allineva la sua moneta a quella polacca. A ogni modo l'incremento delle esigenze finanziarie nei periodi di crisi polacca (guerre, eccetera)costringeva gli stati ad aumentare l'emissione di moneta metallica per poter retribuire i mercenari, i funzionari, finanziare le fortificazioni, eccetera. Poiché le riserve di metallo prezioso (oro o argento) erano limitate, le officine monetarie ridussero le proporzioni di questi metalli nelle monete aggiungendovi rame e piombo, pur decretando un corso (rispetto alla moneta d'oro) immutato, se non addirittura - se erano avidi - superiore alle vecchie monete. Queste ultime venivano ritirate dalla circolazione e scambiate con le nuove monete al tasso ufficiale. 

Sul piano degli scambi internazionalim quando due paesi utilizzano la stessa moneta, il più forte impone la sua moneta alterata che il più debole è costretto ad accettare. Molte alterazioni monetarie, però, venivano realizzate in segreto e, prima che venisse scoperta l'operazione, il paese vassallo vedeva sfuggire la propria buona moneta oltrefrontiera e si ritrovava così con la cattiva, accusando in tal modo una grave perdita di metallo prezioso. Nel caso che ci interessa, le successive svalutazioni della moneta ungherese sotto i regni di Sigismondo di Lussemburgo (1387-1437), di Alberto d'Asburgo (1438-1439) e di sua moglie Elisabetta, di Ladislao I (1440-1444) e infine durante la reggenza di Giovanni Hunyadi (1444-1452), fecero drammaticamente crollare il valore del denier d'argento. Nel 1436 occorrevano 500 denier per ottenere un fiorino d'oro. Sigismondo di Lussemburgo ordinò allora l'emissione di un nuovo denier al corso imposto di 100 denier per un fiorino, ma la svalutazione avvenne ugualmente nel febbraio del 1441 una moneta venne battuta al corso di 220 denier per un fiorino, prima di essere nuovamente svalutata in luglio a 300 denier sempre per un fiorino. Queste alterazioni sucessive della moneta ungherese penalizzavano la Valacchia e la sua economia. Fu in reazione a tutto questo che Vlad Dracul intraprese una vera e propria politica monetaria. Per quanto ne sappiamo fu il primo principe di questo paese ad agire in tal modo. Da una parte tentò di bloccare l'esportazione delle buone monete e del metallo prezioso, dall'altra, proibì l'entrata massiva delle monete alterate. 

Vlad Dracul commise a questo punto un fatale errore politico: chiuse il suo paese alla moneta ungherese. Per rappresaglia Hunyadi scatenò una guerra lampo a sud dei Carpazi. Vlad Dracul e suo figlio Mircea vennero catturati e giustiziati. Tutto ciò accadde tra il 23 novembre e il 4 dicembre 1447. In tale data Giovanni Hunyadi promulgò a Trgoviste, capitale della Valacchia, un atto nel quale si titolava governatore dell'Ungheria e, per grazia di Dio, voivoda della Valacchia (parcium Transalpinarum). Due mesi più tardi, il 28 febbraio 1448, di ritorno dalla Transilvania, avrebbe ricompensato uno dei suoi fedeli per il sangue versato contro vari nemici, tra cui <<l'infedele Vlad voivoda della Valacchia>>. 

Vladislav II sul trono della Valacchia

Al posto di Vlad Dracul, Giovanni Hunyadi insediò sul trono valacco un figlio di Dan II, Vladislav II che, a quanto sembra, aveva già tentato la fortuna una prima volta, tra il giugno e il luglio del 1447. 
All'intervento di Hunyadi in Valacchia fce seguito una campagna militare in Moldavia, durante la quale, tra il 23 febbraio e il 5 aprile 1448, l3 truppe ungheresi ristabilirono sul trono il principe Pietro II. In cambio, il principe moldavo cedette al suo protettore la fortezza di Chilia, situata sulla foce del Danubio, il suo braccio settentrionale. 

Il 29 giugno 1448, festa degli apostoli Pietro e Paolo, il sultano Murad II tentò un colpo di mano contro Costantinopoli dal mare, con sessantacinque battelli. Respinta dai Bizantini, la flotta ottomana risalì la costa occidentale del Mar Nero e assediò Chilia, il suo valore strategico farà dire a Bayezid II, qualche decennio più tardi, che essa era <<a chiave e la porta di tutta la Moldavia, l'Ungheria e il Danubio>>. Le truppe ottomane sbarcarono con l'intento di assediare Chilia ma la flotta ungherese, giunta nel frattempo con le truppe romene inflisse loro una sanguinosa sconfitta e ne incendiò le imbarcazioni. 

L'iniziativa partì ancora una volta da Giovanni Hunyadi. Nel settembre del 1448 passò il Danubio alla testa di un esercito formato da Transilvani e Ungheresi ai quali si sarebbero aggiunti un contingente moldavo di tremila cavalieri e le truppe valacche guidate da Vladislav II, che includevanoo 4000 arcieri eccellenti. 

Si narra che nel vedere il campo ottomano Giovanni Hunyadi abbia scritto al sultano una lettera di questo tenore: <<Sultano, io non ho così tanti uomini quanti ne hai tu, ma anche se essi sono meno numerosi, sappi che sono bravi, fedeli, onesti e valorosi>>. E Murad II avrebbe così risposto: <<Iancu preferisco una faretra piena di frecce normali  piuttosto che sei o sette frecce dorate!>>. Enea Silvio Piccolomini, il futuro Papa Pio II, scrisse che Hunyadi avrebbe catturato una spia turca e, seguendo l'esempio di Scipione, l'avrebbe rimandata indietro sana e salva dopo averle fatto visitare il campo!

Il 17, 18 e 19 ottobre Giovanni Hunyadi affrontò a Kosovopolje le truppe di Murad II e i Turchi riportarono ancora una volta la vittoria. Dopo quest'accanita battaglia il sultano fece riunire le teste dei vinti e ne fece una grande piramide, un'antica usanza asiatica che perdurerà sino al XIX secolo. 
Hunyadi travestito da soldato semplice, era riuscito a fuggire, ma venne catturato dagli uomini del despota serbo Giorgio Brankovic, che aveva negoziato la pace con i Turchi. Hunyadi ritrovò la libertà pagando un riscatto. In quanto a Vladislav II, lo aspettava una brutta sorpresa: in sua assenza, sul trono della Valacchia si era insediato un figlio di Vlad Dracul, appoggiato da un corpo di Spedizione ottomano: Vlad Dracula. 

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giovedì 19 ottobre 2017

Dracula. Un principe e i suoi figli. Ladislao, re di Polonia e d'Ungheria. Giovanni Hunyadi, difensore del confine transilvano. Vlad Dracul, prigioniero dei Turchi. Il disastro di Varna

Dracula

Un principe e i suoi figli

Ladislao, re di Polonia e d'Ungheria



Ladislao il Jagellone 


La morte dell'imperatore-re gettò l'Ungheria nell'anarchia. La regina Elisabetta, incinta, mantenne il trono per tre mesi e poi diede alla luce un figlio, Ladislao, detto <<il Postumo>>, che avrebbe ereditato la corona. Era però necessaria una reggenza e fu al nuovo duca d'Austria, Federico d'Asburgo (eletto re di Germania nel febbraio 1430, poi imperatore), cugino di secondo grado di Alberto, che si rivolse al partito di Elisabetta. Ma la maggioranza della nobiltà ungherese scelse invece Leopoldo II, re di Polonia (1434-1444), ed Elisabetta dovette rifugiarsi a Vienna. Il paese aveva bisogno soprattutto di un scovrano energico che fronteggiasse il pericolo esterno. 

Ladislao Jagellone, nuovo re d'Ungheria e di Polonia nominato re a Buda nel gennaio del 1440 (ma incoronato solo in luglio), era deciso a combattere i Turchi senza tregua graie alla fusione delle risorse militari dei suoi regni. Pur combattendo contro Federico III e suoi partigiani lungo il confine occidentale dell'Ungheria, Ladislao riorganizzò anche la difesa meridionale del paese. Per far ciò si ispirò al modello che i suoi predecessori sul trono della Polonia - Lituania, avevano, attuato contro la minaccia tartara, in special modo in Podolia. Questa regione, conquistata ai Tartari dal granduca Oligierd di Lituania nel 1362-1363, era stata affidata a tre fratelli, appartenenti alla famiglia dei Korjatowicz, con l'incarico di organizzarvi la difesa e la colonizzazione. Nel 1430, al momento dell'occupazione della provincia da parte della Polonia, il re Ladislao Jagellone, ripetè l'operazione e vi insediò la famiglia Buczacky, rappresentata dai fratelli Michele, Teodorico e Michal-Muzylo, che riunivano nelle loro mani le stesse funzioni politiche e militari dei Korjatowicz un secolo prima. 

Giovanni Hunyadi, difensore del confine transilvano



Nel 1440 il problema vitale, per l'Ungheria era la difesa del confine meridionale delimitato dal Danubio, la Sava e i Carpazi meridionali. Questa zona di oltre ottocento chilometri sboccava a ovest sulla Croazia e la Slavonia che erano nelle mani dei maggiori partigiani di Federico III. Gli uomini scelti per condurre a buon fine quest'arduo compito di difesa furono Nicola Ujlàki, nominato conte di Temes (Timis), per la parte occidentale; e Giovanni Hunyadi (Iancu de Hunedoara), nominato ban (marchese) di Severino  e voivoda della Transilvania, per la parte orientale. L'anno seguente i duue uomini condivisero parimenti i titoli di conte di Temes e di voivoda della Transilvania. 

Giovanni Hunyadi (1404 o 1405-1456) riuniva un sé l'incontro di diversi mondi. Era nato in una nobile famiglia romena della Transilvania sudoccidentale, dove si trovava la proprietà di Hunydai (Hunedoara, in romeno) donata al padre dall'imperatore Sigismondo per i suoi servigi nelle guerre contro i Turchi (1409). Come molti giovani nobili attirati dal mestiere  delle armi Giovanni aveva prestato servizio agli ordini di vari magnati del regno d'Ungheria, in special modo, del condottiero Filippo de' Scolari, conte d'Ozora, incaricato della difesa del banat (marca) di Severino. Tra il 1431 e il 1433 Giovanni Hunydai fece parte della cerchia del duca Filippo Maria Visconti di Milano, poi passò al servizzio diretto dell'imperatore Sigismondo di Lussemburgo e partecipò alle guerre contro gli Hussari di Boemia. 

Giovanni si fece notare fin dal 1440 per una vittoria contro i Turchi in Bosnia. L'anno seguente, approfittando della treguua che la malattia di Murad II offirva alla Transilvania, intraprese l'organizzazione della difesa della provincia, della quale avrebbe assunto il titolo di voivoda insieme a Nicola Ujlàki. In ottobre, nonstante le proteste di Vlad Dracul, ordinò agli abiitanti di Brasov di aprire nella loro città un'officina per il conio delle monete. In novembre e dicembre i due voivoda si recarono in Valacchia.  

Nel 1442, Hunydai sbaragliò due eserciti ottomani venuti a saccheggiare il paese sotto la guida del goveranatore di Hunyadi, sbaragliò gli eserciti ottomani venuti a saccheggiare il paese sotto la guida del governatore di Vidin e del beylerbey (governatore) della Rumelia, Sehabbedin pascià. Il bottino fu immenso, a un punto tale che il francescano Bartolomeo de Yano scrisse così:
della quale vittoria quelli della Valacchia, e anche quelli che prima erano passati sono tutti ricchi e vestono solo con abiti di seta e drappi d'oro delle spogliazioni e delle vesti dei Turchi sconfitti, che confessano di aver portato via in gran mucchio.

Vlad Dracul, prigioniero dei Turchi



Murad II decise di occupare militarmente la Valacchia per trasformarla in provincia ottomana. Vlad Dracul si trovava totalmente isolato. Da un lato, non aveva avanti la sicurezza del corpo di spedizione ottomana e avrebbe anche attaccato il rimanente dell'esercito dopo la prima disfatta, in Transilvania, il 22 marzo. Dall'altro Giovanni Hunyadi aveva bisogno di un alleato più docile in Valacchia. Con l'appoggio del re d'Ungheria Hunyadi riuscì a insediare  aul trono valacco Basarab II uno dei figli di Dan II rifugiatosi in Transilvania dopo la morte del padre. Abbandonato da Hnnyadi e scacciato dal trono, Vlad Dracul cercò di riprendere i buoni rapporti  con i Turchi. In quuesto frangente venne contattato da un funzionario (subachi o subasi), turco di Giurgio, latore di un salvacondotto del sultano che lo invitava ad Adrianopoli e gli garantiva salva la vita. 

Vlad Dracul accettò l'invito del sultano. Non poteva sperare di recuperare il trono contro della statura di Giovanni Hunyadi, ma contava sulla propria abilità nel convincere Murad II a sostenerlo nelle sue ambizioni. Non appena arrivato a Adrianopoli (luglio-agosto 1442) Vlad Dracul venne introdotto al cospetto di Murad II.:
... il quale a prima vista, lo ricevette molto onorevolmente. Il Turco era installato fuori le mura, con un gran numero di tende e di padiglioniper lui e per i suoi. 
All'indomani dell'arrivo del signore della Valacchia, il suddetto Gran Turco gli organizzò un gran banchetto, al quale invitò tutti i suoi subachi e capitani per festeggiare il signore della Valacchia. E stava quel Gran Turco dentro un padiglione tutto rivestito di velluto color cremisi, ornato e addobbato con ricchi cuscini e cuscinetti drappeggiati d'oro e di seta il quale medaglione era di circa dieci piedi d'altezza, sporgente in avantied elevato affinché (il Gran Turco) potesse vedere i suoi soldati e capitani. E fuori dal padiglione ssedeva per terra su cuscini e tappeti con drappi d'oro il signore della Valacchia, alla destra del Turco, e alla sua sinistra era seduto il bellarbay (beylerbey), che siignifica signore dei signori; e tutti gli altri nnobili erano seduti come in una carovana, da destra a sinistra, il mondo che il Gran Turco  li potesse vedere tutti mentre mangiavano. Indi, terminato il pranzo il Turco si ritirò nella sua granda tenda; poi subito dopo, inviò il subachi che aveva condotto il signore della Valacchia affinché lo facesse prigioniero, come fece, e poi lo portasse nel castello di Gallipoli, che si trova sullo stretto di Rommenia (Dardanelli), dove lo rinchiuse e lo mise ai ferri. E tutti quei signori che erano venuti con il signore della Valacchia per accompagnarlo, il Turco li fece condurre a guidare fino al loro paese, dove raccontarono il gran tradimento da parte del Gran Turco, contro la persona del loro signore, cosa della quale tutti i suoi sudditi rimasero terrificati. Perché capirono e immaginarono bene in cuor loro che il Turco aveva fatto quel tradimento sperando che, senza pastore e senza guardiano, li avrebbe conquistati facilmente. Perché il signore della Valacchia a quel tempo aveva solo un figlio dell'età di tredici o quattordici anni, il quale non era affatto  in grado di condurre un tale regno, specialmente in tempo di guerra; per cui un gran dolore regnava in tutta la Valacchia. 

Alcuni contemporanei aggiunsero che il principe era stato decapitato, altri che i suoi boiardi erano stati spogliati di tuti i loro beni e sostituiti da dei timariot turchi, eccetera. Dopo che Vlad Dracul venne imprigionato, Murad II inviò un nuovo esercito in Valacchia per cercare d'installarvi un'amministrazione ottomana e attaccare di nuovo la Transilvania. Quest'esercito, comandato dal beylerbey della Rumelia, Sehabbedin pascià, fu sconfitto dalle truppe ungheresi e valacche sul fiume Ialomita il 2 settembre 1442. 

Il sultano si vestì di nero e decise di digiunare. Di lì a poco Giovanni Hunyadi gli avrebbe fornito un'uteriore occasione di digiuno. Nel settembre del 1443 mise in piedi, quasi del tutto a sue spese, un esercito di circa 35.000 uomini, per la maggior parte nobili romeni della Transilvania e del Banat, con i quali marciò contro i Turchi sul loro stesso territorio. Si portò appresso alcuen truppe valacche e il loro principe Basarab II, oltre alcuni contingenti serbi del despota Giorgio Brankovic, rifugiatosi in Ungheria. La <<lunga campagna>>, come venne chiamata, durò quattro mesi, dal settembre 1443 al gennaio 1444. Hunyadi riportò parecchie vittorie sugli ottomani, i quali non avevano ancora mai visto un esercito cristiano ai piedi dei monti Balcani. Questa partenza tardiva per la guerra si spiega con le difficoltà nel garantire la tranquillità del fronte occidentale, dove Federico III, spinnto dal papa finì con l'accetare una tregua; bisogna poi aggiungervi le forti esitazioni di Venezia ad armare una flotta che fosse capace di chiudere gli Stretti e la titubanza della chiesa cattolica, dilaniata dal conflitto tra il papa Eugenio IV da una parte e i cardinali del Concilio di Basilea con il loro antipapa dall'altra. 

Nel giugno del 1444 Giovanni Hunyadi ordinò la ritirata generale. Il suo progetto di scacciare i Turchi dall'Europa era rimandato alla seconda parte dell'anno. Il 2 febbraio rientrava trionfante a Buda, dove la Dieta decideva all'unanimità di continuare la crociata. 
Dal canto suo Murad II non rimase inoperoso. Fin dal gennaio del 1444 avanzò delle proposte per un trattato di pace di venti o anche trant'anni, dichiarò di accettare la restaurazione del potentato di Serbia e chiese in caambio la restituzione di molti prigionieri turchi, Murad fece uscire Vlad Dracul dalla prigione di Gallipoli.

Basarab II, il protetto di Giovanni Hunyadi, venne scacciato dal trono e trovò probabilmente la morte durante questi eventi. La Dieta ungherese, riunita a Buda il 15 aprile decretò la chiamata alle armi delle truppe del regno per l'estate, allo scopo di continuare la battaglia contro i Turchi. Questo nonostante l'opposizione dei consiglieri polacchi del re, i quali avrebbero preferito approfittare dei buoni propositi del sultano per mantenere la pace nei due regni. Il despota Giorgio Brankovic, uno dei più ricchi proprietari terrieri dell'Ungheria, concordava con essi nella speranza di recuperare il proprio regno. L'esempio di Vlad Dracul  era contagioso! D'altra parte, il conflitto con Federico III per la corona ungherese era ricominciato e andava complicandosi per alcuni disordini avvenuti al confine con la Boemia. Sembra anche che Giovanni Hunyadi propendesse per un negoziato con i Turchi che strappasse loro il massimo delle concessioni. 
Il 24 aprile 1444 un'ambasciata ungherese e serba partì alla volta di Adrianopoli. Era formata da tre rappresentanti: uno per il re uno per Hunyadi e uno per Giorgio Brankovic. Arrivato ad Adrianopoli in giugno, il 12 dello stesso mese concluse con il sultano un trattato di pace che includeva anche Vlad Dracul, il quale aveva riallacciato i rapporti con il re e con Hunyadi. La situazione di Vlad fu così regolata da Murad II: 
Allo stesso modo (l'ambasciatore del re) ci ha detto che per quanto riguarda Vlad, il voivoda valacco, gli piacerebbe che la pace con lui venisse conclusa in questi termini, cioè, che il suddetto coicoda mi dia in primo luogo il tributo abituale, e che si attenga a tutti i servizi che aveva l'obbligo di rendermi nel passato, tranne il fatto che non sarà più obbligato, come lo era prima, a venire di persona presso la nostra corte. Dunque, per amore di Sua Eccellenza noi accettiamo che non si rechi più presso la nostra corte ma che in cambio ci mandi in ostaggio e liberi quelli tra i nostri che fuggiranno nelle sue terre, così come noi faremo per coloro dei suoi che fuggiranno qui. 

Il trattato venne ratificato dal re Ladislao a Szegedin alla fine di luglio del 1444, non senza aver prima strappato alcune nuove concessioni a Murad II che le accettò, desideroso com'era di passare gli stretti per domare la rivolta all'emiro di Karamania. 
Vlad Dracul assolse coscienziosamente i suoi obblighi, ma, non volendo sacrificare il primogenito Mircea, mandò al sultano due ostaggi al posto ddi uno: Vlad, il futuro Dracula, e Radu; rispettivamente di quaattordici o quindici anni e di cinque o sei anni. Mal gliene insolse, perché il 4 agosto, meno di una settimana dopo la firma del trattato, il re Ladislao, Giovanni Hunyadi e gli altri dignitari ungheresi giurarono solennemente, in presenza del legato pontificio, Giulio Cesarini, cardinale di Sant'Angelo, di muovere guerra ai Turchi a partire dal primo settembre. E' certo che Vlad venne informato troppo tardi di questo voltafaccia, che vece versare molto inchiostro e suscitò aspre controversie. 

In tempi normali i due principini ostaggi avrebbero dovuto soggiornare ad Adrianopoli o a Brasov, come era avvenuto nel 1432, ma la rottura della pace indussse il sultano a trasferirlo il più lontano possibile dal loro paese, a Egrigoz, oggi cantone di Emet, nella provincia di Kutahya.

Il disastro di Varna

Naturalmente anche Vla Dracul fu invitato a prender parte alla campagna di Varna nell'ottobre del 1444. Il principe era però deciso a rispettare il giuramento fatto al sultano, ossia di non attaccarlo, poiché ne dipendeva la vita dei suoi figli. Il cardinale di Sant'Angelo gli propose di assolverlo dal giuramento così come aveva fattto per il re e per Giovanni Hunyadi (ma non valse a nulla, perciò, il legato e il re d'Ungheria, furono molto scontenti>> affermaWalerand de Wavrin. Inoltre, quando l'armata dei crociati passò il Danubio negli ultimi giorni di settembre e si fermò a Nicopoli, Vlad Dracul si presentò davanti al re Ladislao e gli spiegò il suo punto di vista e il bisogno di pace che aveva il suo paese. Ciononostante si dichiarò pronto a contribire alla causa comune e mise a dispposizione del re settemila cavalieri, guidati da suo figlio Mircea. Dopo aver dimostrato in tal modo di essere disposto ai più grandi sacrifici Vlad Dracul  che conosceva fin troppo bene i Turchi informò  il re e i suoi consiglieri che solo per aandare a caccia il sultano usciva con un numero di uomini maggiore di quello di tutto l'esercito dei crociati messo assieme. 

Nella battaglia che il 10 novembre ebbe luogo a Varna il re non seguì i prudenti consigli di Vlad e quando vide i Turchi ritirarsi si lanciò al loro inseguimento. Fu in questa circostanza che il suo cavallo venne ucciso sotto di lui, e che un guannizzero, sbucato dal nulla, gli tagliò la testa. Spaventati e disorganizzati, i cristiani si ritirarono in disordine. Giovanni Hunyadi e i suoi riuscirono a rientrare in Valacchia, il cardinale Cesarini, invece fu dato per disperso, probabilmente morto in battaglia o assasinato dai soldati romeni, allettati dall'oro che trasportava. 
La scomparsa del giovane re di Polonia e d'Ungheria fu un duro colpo per i cristiani. Il sultano Murad ne fece imbalsamare la testa con le spezie, la riempì di cotone, ne fece pettinare i lunghi capelli neri e truccare il volto affinché sembrasse vivo, la conficcò in cima a una lancia, dalla quale pendeva anche il trattato di pace di Szeged, e la ostentò lungo il campo degli alleati, poi in tutte le città dell'Impero. In seguito la mandò come trofeo al sultano mamelucco del Cairo. 

In quel giorno funesto il contingente valacco combatté con coraggio. Mircea, il comandante aveva al massimo sedici anni; lo coadiuvava un precettore esperto che nel 1396, aveva partecipato alla giornata di Nicopoli e conosceva il modo di battersi dei Turchi. Nel cuore della battaglia il sultano mandò un messaggio a Mircea minacciando di uccidere i suoi due fratelli se avesse continuato a combattere, il che causò la ritirata dei Romeni. Questo anche se Vlad Dracul non si faceva più illusioni sulla sorte dei suoi figli, come prova questa lettera che inviò agli abitanti di Barasov: 

"Vi prego di comprendermi poiché ho lasciato uccidere i miei due figli per la pace dei cristiani e affinché io e il mio paese si appartenga al mio signore, il re d'Ungheria"

E, in un certo modo, per lui i due figli erano morti, poiché non li avrebbe mai più rivisti. Ecco perché il principe valacco, nonstante la disputa di Giovanni Hunyadi - che quasi uccise con le proprie mani quando, dopo Varna, quest'ultimo si rifugiò in Valacchia - cooperò appieno con la flotta borgognona giunta l'anno seguente attraverso il Danubio. L'obiettivo illusorio di questa spedizione era quello di cercare il re Ladislao e il cardinale Cesarini, che si diceva fossero ancora vivi. Le otto galere che salparono per congiungersi a Nicopoli con Giovanni Hunyadi e le truppe d'Ungheria erano comandate da Walerand de Wavrin, Regnauld de Comfide e Jacot de Thoisy, capitano della flotta del duca di Borgogna Filippo il Buono - come anche dal cardinale veneziano Condulmieri. In tarda età Walerand de Wavrin raccontò le sue gesta al nipote, lo storico Giovanni de Wavrin, che le inserì nella sua Cronaca dell'Inghilterra. Il racconto si legge come un romanzo di cappa e spada: si susseguono assedi, battaglie contro i Turchi e astuzie per evitare il fuoco della loro artiglieria, scoperte di granai sotterranei contenenti fave, grano e piselli (<<e sembrò a tutti una manna dal cielo>>), tafferugli continui tra romeni e borgognoni per la spartizione del bottino e dei vestiti dei nemici morti, al punto tale che ciascuno se ne portava via un pezzo, chi una spada, un fodero, un arco o una faretra. 

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martedì 17 ottobre 2017

Maria Antonietta. Cap. VII

Maria Antonietta Cap VII


Maria Antonietta


Nelle spaziose stanze dell'appartamento di Antonietta a Versailles regnava il disordine. Il vastissimo corpo di guardia in cima alla scalinata di marmo era stipato di armi e di equipaggiamento delle guardie, che ingannavano il tempo giocando d'azzardo e raccontandosi a vicenda le loro storia personali, mentre tutt'intorno mercanti d'ogni genere attendevano l'occasione buona per mostrare alla delfina ciò che avevano da vendere, e corrieri e visitatori della corte andavano e venivano, apparentemente indaffarati. Nell'anticamera, ove i domestici di Antonietta stavano in attesa del loro turno di servizio, e ove era apparecchiata la <<grande tavola>> per il pasto del mezzoogiorno, gli arazzi erano sforacchiati nei punti ove i due cani di Antonietta, due carlini dalla coda ricurva, li avevano graffiati, e il pavimento di legno era infangato dalle orme degli animali <<Madame la dauphine ama moltissimo i cani>>, scrisse una volta Mercy a Maria Teresa, aggiungendo che Antonietta chiedeva che le fosse mandato da Vienna un altro cane un carlino di color fulvo col vaso nero. 

Anche la camera di Antonietta, col suo enorme letto, recava tracce evidenti della presenza dei cani, ma, i guasti prodotti da questi ultimi erano maggiormente visibili nelle altre stanze, ove la delfina li lasciava ruzzare liberamente su sedie e sofà rivestiti di damasco; le gambe di questi mobilierano fittamente segnate dai morsi degli animali. I cani facevano i loro bisogni quando e dove volevano, dato che Antonietta non si preoccupava di impedirglielo e a nessuno dei servitori era stato affidato il compito specifico di badare ai due animali. Ad accrescere il caos c'erano poi due bambini piccoli, di quattro e cinque anni. Uno era figlio del primo valletto della delfina, Thierry, l'altro era figlio della sua prima cameriera. I due bambini erano sempre scalzi, scorazzavano per le stanze inseguendosi a vicenda, giocavano con i cani e facevano un allegro disordine, specialmente quando Antonietta, avrebbe dovuto ascoltare gli ammaestramenti dell'abate Vermond o una lezione di canto, oppure lavorare all'uncinetto per fare un panciotto da donare al re. 


Luigi XV




La camera di Noailles, era rimasta profondamente offesa quando la sua signora, cercando di ridurre all'osso la lunga procedura necessaria anche per le più semplici incombenze di corte, aveva mandato da lei la moglie di Thierry per falre sapere che la desiderava al suo servizio. Furibonda perché si sentiva insultata, la contessa di Noailles si era precipitata da Antonietta per annunciarle che non intendeva prendere ordini da una cameriera, e in particolare da una cameriera che non era stata ancora ufficialmente nominata. 

All'origine dell'incidente c'era una delle figlie del re, Adelaide; era stata lei che aveva suggerito ad Antonietta di aggirare il protocollo mandando direttamente la Thierry dalla conttedssa di Noialles, benché sapesse benissimo quali sarebbero state le conseguenze del suo consiglio. Mercy non aveva potuto fare una paternale ad Antonietta; aveva solamente cercato di mettere in guardia la delfina facendole notare quanto poteva essere pericoloso dare ascolto a certi consigli. 

La delfina a quanto pareva non sapeva tenersi pulita e in ordine. Dalle partite di caccia che seguiva in carrozza, tornava sempre tutta bagnata e inzaccherata, trascurava l'acconciatura dei capelli; e dedicava al proprio abbigliamento un'attenzione così scarsa che una nobildonna austriaca in visita a Versailles ne rimase sconcertata e fece a Maria Teresa un rapporto molto severo <<Mi ha detto>>, scrisse l'imperatrice ad Antonietta, deplorando il comportamento della figlia <<che hai poca cura di te stessa, anche quando si tratta di lavarti i denti; questo come la tua persona in genere, è un punto chiave ed essa ti ha trovata peggiorata... Ha aggiunto che eri malvestita e che si è azzardata a dirlo alle tue dame>>.

Data la sua allegra non curanza per le riigorose consuetudini della corte Antonietta non poteva non scontrarsi con la puntigliosa e scrupolosa dame d'honneur che le era stata assegnata. A proposito della contessa di Noailles, Madame Campan scrisse una volta. <<Non aveva attrattive esteriori. Il suo portamento era rigido, la sua espressione severa; conosceva l'etichetta da cima a fondo>>. Madame Campan aveva avuto occasione di conoscere la sopra ricordata severità un giorno che si trovava nell'appartamento di Antonietta mentre veniva ricevuto un visitatore solo recentemente presentato a corte. <<Era tutto regolare, o perlomeno così credevo>> ricordava la Campan. <<Improvvisamente mi accorsi che gli occhi della contessa erano fissi sui miei. Fece un piccolo cenno col capo. Le sue sopracciglia si alzarno, si abbassarono e tornarono ad alzarsi. Poi si mise a fare piccoli gesti con le mani. Questa muta esibizione non mi lasciò dubbi: qualcosa non andava comme il faut>>.


Maria Teresa d'Asburgo

Frattanto la dame d'honneur si era messa a gesticolare in modo più visibile. Allora Antonietta aveva notato ciò che non andava e aveva rivolto un sorriso a Madame Campan, che si era affrettata ad avvicinarsi. A quanto pareva, la Campan aveva dimenticato di allentare le alette pendenti del suo copricapo. <<Allentate le alette>>, le aveva mormorato Antonietta, <<altrimenti la contessa ne morirà>>, Madame caampan aveva allentato le alette e la contessa si era un pò ripresa dallo shock. 

La delfina era <<perennemente tormentata>> dalla sua dame d'honneur, che la seguiva passo a passo e la correggeva mille volte al giorno dicendole come doveva accogliere una persona in un certo modo  e un'altra in un certo altro modo, criticando il suo modo di parlare, lanciandole occhiate di disapprovazione e scuotendo la testa con aria afflitta. 

Anche quando pranzava in compagnia del delfino in una sala piena di cortigiani e di spettatori, scoppiava in sonore risate, sconcertando i presenti. Mercy la vedeva spesso <<sussurrare all'orecchio di qualche giovane dama>> e poi <<ridere con lei>>. <<A volte scherza sulle persone che le sembrano ridicole>>, scrisse una volta l'ambasciatore, aggiungendo: <<Sa usare lo spirito e il sarcasmo in modo da rendere assai mordaci le sue osservazioni>>. Non faceva differenza che Antonietta <<fosse di carattere per natura allegro e scevro di cattive intenzioni>>; i commenti erano non per questo meno pungenti. E quando la delfina faceva osservazioni <<satiriche e astiose>> su Madame Du Barry, il re si irritava, anche se non lo diceva mai direttamente alla nipote, ma glielo faceva sapere, tramite intermediari. 


Luigi XVI

Il paese era di fronte a una crisi fiscale. Il tesoro era sull'orlo della bancarotta, bisognava imporre e riscuotere nuove tasse. L'intero sistema tributario anzi, aveva urgente necessità di una riforma. Eppure la riforma era impossibile finché l'autorità del sovrano era tenuta in scacco dai parlamenti locali di fatto, un potere di veto sugli editti del re. Nella confusione politica di dicembre 1770 il duca di Choiseul aveva perso le sue cariche perché appoggiava i parlamenti locali, mentre il carattere generale, l'abate Terray, era contrario ad essi.

I parlamenti locali, erano istituzioni arcaiche in cui la nobiltà proclamava la propria volontà di non dipendere dall'autorità regia. Non tutte le province francesi avevano un parlamento. I parlamenti erano tredici, e di essi il più numeroso e il pià importante era quello di Parigi. Ciascuno dei tredici sosteneva però di essere la suprema corte d'appello per la sua provincia con il potere di opporre resistenza all'imposizione della legge regia. Nel settore tributario i parlamenti erano distintamente importanti; ogni volta che i ministri del sovrano cercavano di opporre resistenza all'imposizione della legge regia. Nel settore tributario i parlamenti erano distintamente intransugenti: ogni volta che i ministri del sovrano cercavano di sopprimere le esenzioni fiscali di cui godevano gli aristocratici i parlamenti cessavano di funzionare. Le procedure legali si arrestavano e il re, anche se prendeva provvedimenti punitivi non era in grado di far entrare in vigore i propri editti. 

Da una parte i parlamenti erano organi votati alla difesa dei propri interessi, gelosi custodi delle prerogative dei loro membri aristocratici. D'altro canto, nel clima sempre più evidente di pensiero politico liberale che caratterizzava il XVIII secolom l'opposizione dei nobili al re poteva assumere il carattere - e l'assumeva - di un'opposizione al dispotismo, opposizione radicata in una tradizione di libertà che, insistevano i suoi sostenitori, risaliva ai tempi di Carlo Magno e oltre. In tal modo la lotta fra i parlamenti e la corona veniva spesso presentata come una lotta del popolo francese contro il suo tirannico sovrano, in cui i nobili erano campioni del popolo. 

La monarchia e l'aristocrazia, attraverso i parlamenti, erano semplicemente impegnate in una lotta per il potere, in cui i nobili miravano ad assicurarsi una quota sempre maggiore dell'autorità che un tempo era prerogativa esclusiva del sovrano. I parlamenti erano in verità un bastione, ma un bastione del privilegio degli aristocratici: in altre parole un bastione che, nella congiuntura politica ed economico - sociale dell'inizio degli anni Sessanta del XVIII secolo, rappresentava un ostacolo a riforme finanziarie di cui c'era un gran bisogno. 

L'abate Terray e il cancelliere Maupeou - un giurista, quest'ultimo, abile e provo di scrupoli - persuasero il re che se si voleva il successo delle suddette riforme finanaziarie era necessario sopprimere i parlamenti locali. D'un colpo il vecchio sistema giuridico venne spazzato via e furono costituiti nuovi tribunali fiscali. Terray affrontò per primo il problema del debito del tesoro e dispose prestiti forzosi. 

La nomina del duca d'Auguillon al posto del duca di Choiseul fu un ulteriore insulto ai sostenitori dei parlamenti, perché egli si era trovato in contrasto con i parlamenti della Bretagna e di Parigi e il conflitto politico che ne era risultato era divenuto, in un certo modo, un simbolo della determinazione della monarchia di soffocare l'indipendenza dei nobili. Il conflitto si ripercosse perfino nell'ambito della famiglia reale: i principi di Condé e di Conti e il duca d'Orléans, cessarono di frequentare la corte per protesta contro la soppressione del Parlamento di Parigi. (Il er Luigi definì il principe di Conti <<mio cugino, il giurista litigioso>>). 

Il conte di Provenza, sposatosi nel maggio del 1771, si era malignamente vantato, con il delfino di essere stato <<quattro volte felice>> nella notte di nozze. La sua consorte Maria Giuseppina di Savoia, aveva anch'essa goduto <<meravigliosamente>>, a detta del duca; e i cortigiani si erano messi ad osservare con attenzione la sposa per scorgere un qualche segno che fosse incinta. La nuova contessa di Provenza non poteva attrarre l'attenzione per nessun altro motivo: era tozza e scura di carnagione, con cespugliose sopracciglia nere e un ciuffo tutt'altro che femminile di peli neri sul labbro superiore, che i cortigiani meno riguardosi chiamavano mustacchio. La sua ruvida epidermide non era certamente oggetto d'ammirazione, e Maria Giuseppina trascurava molto spesso di fare il bagno. Luigi XV, disgustato dalle abitudini personali della nuova nipote, scrisse ai suoi genitori pregandoli di dire alla propria figlia di lavarsi il collo.


Maria Giuseppina di Savoia 

<<Il comportamento di Maria Giuseppina è freddo e imbarazzato>> pensava Mercy. <<Parla poco e con impaccio>>. Può darsi che fosse sconcertata dalla grandiosità di Versailles e dai suoi temibili abitanti; quando riuscì a farsela amica, Antonietta la trovò <<molto dolce, molto gradevole e molto allegra in privato, anche se non appare tale in pubblico>>. <<Ha per me molta simpatia>>, scrisse Antonietta alla madre, <<e molta fiducia. Non è affatto dalla parte di Madame Du Barry>>. 

La principessa di Lamballe, una giovane vedova piuttosto melanconica che era la nuora del duca di Penthiévre. Per breve tempo la principessa, era stata sposata con il dissoluto principe di Lamballe, che si era spento molto giovane, vittima dei suoi eccessi; aveva sei anni più di Antonietta, ma una personalità meno marcata, la sua gentilezza d'animo e il suo buon carattere facevano da contrappunto alla vivacità della delfina. La principessa era una figurina delicata, i suoi lineamenti fisici erano irregolari ma non sgradevoli. Il suo tratto più negativo erano le mani, a giudizio di un memorialista di corte; quello più positivo era costituito dal candore e dall'estraneità agli intrighi. Nell'inverno 1770-1771 la principessa di Lamballe e Antonietta divennero amiche. L'<<aria infantile>> della giovane vedova la rendeva cara alla delfina, che amava i bambini, e il fatto che anch'essa, piemontese, fosse straniera costituiva un ulteriore legame con la principessa austriaca. 

Le lughe e autoritarie lettere dell'imperatrice, scritte con la concisione e l'immediatezza che per Maria Teresa erano una seconda natura, ma che avevano il potere di intimidire la giovsne figlia, la quale era di carattere assai sensibile, arrivavano ogni mese. Erano piene di critiche e di direttive, una sorta di controparte scritta dei rimbrotti verbali della contessa di Noailles. Il modo in cui scriveva Antonietta era difettoso, lamentava l'imperatrice. La sua <<aria giovanile>> era scomparsa: appariva chiaro dai ritratti. Doveva deidicare una maggiore attenzione agli austriaci che capitavano a corte. Non doveva andare a cavallo. Avrebbe dovuto leggere di più. Non avrebbe dovuto mantenere rapporti così intimi con Adelaide, Vittoria e Sofia. Doveva parlare con Madame Du Barry, per quanto sgradevole potesse essere la cosa. Doveva sorvegliarsi con attenzione e proteggersi dagli attacchi. Soprattutto, dovev adoperarsi per essere simpatica agli altri. 

Nelle missive dell'imperatrice c'erano ingiunzioni sul cibo, sull'esercizio fisico, sull'abbigliamento, sul comportamento, e sulla vita coniugale di Antonietta. Maria Teresa aveva opinioni molto nette sul modo di costringere un marito a farsi coraggio (sempre nella presunzione che fosse la timidezza, e non un inguaribile impotenza, il problema del delfino). <<Sii prodiga di carezze>> scriveva Maria Teresa ad Antonietta. Le lettere erano piene di rimproveri, e anche di espressioni disperate (<<Ti vedo procedere a grandi passi e con calma non curante verso la rovina>>, scrisse l'imperatrice nell'ottobre del 1771), ma col trascorrere dei mesi divennero più tenere e perfino lamentose. Maria Teresa stava invecchiando e si sentiva addosso il peso degli anni. Le facoltà di Maria Teresa declinavano ed essa non si sentiva più a suo agio nel mondo che vedeva intorno a sé: <<L'irreligione, il decadere della morale, il gergo che tutti usano e che non capisco, tutte queste cose bastano per sopraffarmi,>> lamentava. Si sentiva sola e aveva nostalgia dei suoi figli, la maggior parte dei quali viveva lontano da lei, e di suo marito, la cui perdita non cessava mai di piangere. 

Una fonte costante di esapserazione, per Maria Teresa, era Giuseppe, la infastidiva con le sue pretese e, proprio nel momento in cui essa più sentiva il peso degli anni, la tediava con richieste di ogni genere e con la continua minaccia di rinunciare al titolo di co-reggente. Se però Giuseppe, data la sua presenza a Vienna, era una preoccupazione quotidiana, una preoccupazione non meno grave era per l'imperatrice la figlia Amelia. Il matrimonio con Don Ferdinando di Parma, un uomo senza spina dorsale, si era trasformato in un incubo. Amelia comandava a bacchetta la corte, o tentava di farlo. Maria Teresa disapprovava nettamente la sua condotta, e per poco questo suo atteggiamento non aveva causato una rottura in famiglia. 


Madame Du Barry

Antonietta era costantemente in apprensione, constantemente in guardia per paura di offendere la temibile genitrice. <<Amo l'imperatrice, ma ho paura di lei>>, disse all'ambasciatore austriaco, <<anche da lontano, anche quando le scrivo non mi sento mai a mio agio con lei.>> Era ancor peggio quando doveva dare alla madre cattive notizie. Con le lacrime agli occhi, Antonietta che aveva paura di riferire a sua madre <<le cose che vanno male>>. <<Il mio cuore è sempre con la mia famiglia in Austria>> disse in un'altra occasione a Mercy, <<e, se litigassi con i miei familiari, sento che i miei doveri qui sarebbero troppo onerosi per poterli sopportare.>>

Antonietta, aveva ppaura delle lettere che arrivavano da Vienna, ma aveva ancor più paura della prospettiva che un giorno quelle lettere non arrivassero più. Poco prima della fine di febbraio del 1772 giunse notizia che l'imperatrice era stata gravemente ammalata e che i medici l'avevano sottoposta a due salassi. Antonietta scoppiò in lacrime e si chiuse nellla stanza meno accessibile del suo appartamento, annullando un'udienza già fissata. Andò a prendere il rosario che Maria Teresa le aveva donato, e si inginocchiò per pregare, afflitta in quel momento di angoscia quanto poteva essere effervescente in gaiezza nei momenti più sereni. Il delfino pregò al suo fianco affettuoso e leale con la moglie nonostante l'antipatia che provava per l'Austria e gli austriaci e l'indifferenza nei confronti della suocera, che non aveva mai conosciuto. 

Per far piacere alla consorte, il delfino ordinò che si desse un ballo alla settimana nell'appartamento di Antonietta; e sempre la accompagnava ai riicevimenti offerti dai vari gentiluomini della corte. Tutti notarono in lui un cambiamento: nel suo modo impacciato, cercava di essere socievole, benché preferisse sempre le sue cacce solitarie e compisse quello sforzo, evidentemente, soltanto per fare cosa grata alla moglie. Antonietta sosteneva di essere felice con lui e affermava che <<le voci maligne sussurrate dalla gente sulla sua impotenza sono niente altro che sciocchezze>>. La maggior parte delle notti dormiva nel suo letto, e la trattava <<nel modo più cordiale>>. Ma non erano ancora marito e moglie, e Antonietta, vedendo le altre donne della corte incinte, e poi con i loro bambini in braccio, a volte si disperava. Invidiava quelle donne anche quando la loro gravidanza aveva una conclusione tragica. Nell'ottobre del 1771 la dichessa di Chartres parotorì un bambino morto. <<Anche se è terribile>>, scrisse Antonietta in una lettera inviata alla madre, <<vorrei essere stata io al suo posto, ma su questo non c'è ancora speranza>>. 

Antonietta era ancora molto giovane, non troppo per restare incinta ma forse troppo per essere costantemente feconda. Era ncora in sviluppo, e nei primi anni che tracorse alla corte di Francia la sua altezza aumentò considerevolmente. Stava diventando anche più formosa, specialmente dopo che, su suggerimento della madre, aveva cominciato a bere latte fresco ogni mattina. L'imperatrice aveva sempre creduto nelle virtù salutifere del latte appena munto, portato direttamente dalla stalla. 

Imparava gradualmente a provar piacere nella lettura di libri istruttivi, e, per ore e ore, si faceva leggere dall'abate Vermond (che non era stato licenziato, dopo tutto) brani di opere, sulla storia di Francia e di memorie di uomini di corte dei regni precedenti. Se ne stava pazientemente seduta, col lavoro all'uncinetto in grembo, ascoltando l'abate o discutendo con lui il commento biblico che le era stato dato dal suo confessore per aiutarla a leggere la storia d'Europa di Hume, coosa che essa aveva fatto per suo conto. 

Due anni dopo il suo arrivo in Francia Antonietta era una ragazza diversa. Aveva conservato il suo fascino di adolescente, ma ad esso aveva aggiunto buon senso, acume e perspicacia. Pur provando antipatia, e perfino timore, per la politica, se ne intendeva, almeno fino a un certo punto, e afferrava con alacrità le spiegazioni che le venivano date in proposito. Stava imparando a farsi strada, destreggiandosi fra gli scogli della politica di corte, restando in equilibrio tra le fazioni del re con Madame Du Barry da un lato, e di coloro che avrebbero vooluto servirsi di lei come paravento dall'altro. Finì per compiacere il desiderio del re rompendo il lungo silenzio nei confronti della sua amante, e tuttavia lo fece in modo da slvaguardare la propria dignità. 

A Capodanno del 1772, nel pieno delle complicate cerimonie che erano di rigore nel primo giorno dell'anno, Antonietta decise infatti di pronunciare quelle poche parole che sarebbero bastate per soddisfare il sovrano. Nei brevi scambi di coonnvenvevoli con le dame, che, a turnom si inchinavano dinanzi a lei, non trascurò questa volta Madame Du Barry. <<C'è molta gennte, oggi a Versailles>>, le disse mentre la contessa si prosternava ai suoi piedi. 

Nella delfina, la differenza rispetto all'adolescente intimidita e incolta, di due anni prima, era evidente soprattutto nel modo in cui trascorreva il tempo. Di tanto in tanto andava ancora a trovare le zie, ma ora la si trovava più frequentemente indaffarata a leggere per migliorare la sua cultura, a ricevere le mogli degli ambasciatori stranieri, a suonare la musica per arpa inviatale da sua madre, imparando lentamente prima la parte per la mano destra, poi quella per la sinistra. Adesso, inoltre, nel suo appartamento si vedevano raramente i figli delle sue cameriere, anche se vi stazionavano ancora i cani. Epppure in molti pomeriggi si potevano trovare i cani immersi nel sonno sui sofà, o intenti a zampettare contro le porte, inquieti nella loro solitudine. La loro padrona era fuori impegnata in una partita di caccia; indossando la tenuta da caccia di velluto azzurro e un grande cappello piumato, cavalcava uno degli splendidi destrieri che il nonno aveva acquistato per fargliene dono. I somarelli <<dolci e gentili>> che aveva cavalcato nei primi mesi trascorsi in Francia non la soddisfacevano più. Erano troppo lenti e la frustravano, specialmente quando essa doveva procedere in compagnia di tutte le dame del suo seguito, un lunghissimo corteo di sessanta o ottanta signore in groppa ad altrettanti quadrupedi. Sugli splendidi cavalli da caccia del Suffolk di cui disponeva ora, Antonietta poteva invece galoppare a suo piacimento libera da sua madre, libera dalla contessa di Noailles, libera, per il momento dalle preoccupazioni della sua situazione e dallo sgradevole pensiero del futuro.  

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lunedì 9 ottobre 2017

Giovanna d'Arco La Guerra dei Cent'anni

 La guerra dei Cent'Anni



L'avventura di Giovanna si consuma rapidamente, nei due anni compresi fra il e il  . Nata con ogni probabilità attorno al 1412, la Pulzella sale sul rogo a Rouen nel 1431, a meno di vent'anni. La sua brevissima vita si esaurisce tutta all'unterno di una delle fasi conclusive di quel lungo periodo di guerre e di disordini che ha interessato direttamente Francia e Inghilterra ma anche indirettamente (e in modo diverso) ha toccato anche le penisole iberica e italica. Un periodo al quale siamo orai abituati ad attribuire il nome di <<guerra dei Cent'anni>>, per quanto a dire il vero i suoi limiti cronologici siano un pò più ampi: 116 anni, dal 1337 al 1453.

Si tratta della <<crisi del Trecento>>, perpetuatasi in relatà anche nel secolo succesivo e, secondo alcuni, giunta a saldarsi attraverso ulteriori fasi e articolazioni alle due altre crisi che hanno contrassegnato l'Eurpa moderna: quella religiosa ed economica del cinquiecento, caratterizzata dala Riforma e dalla <<rivuluizione dei prezzi>>, e quella globale del Seicento, culminata nella peste del 1630 ed esauritasi solo verso la metà del secolo, con la fine d'un altro lungo conflitto europeo, la <<guerra dei Trent'anni>>.

Sin dai prmi del XIV secolo, si erano cominciati ad avere inverni più lunghi e rigidi e stagioni più piovose che incisero negativamente sui raccolti provocando carestie e di conseguenza debiliazioni nelle già provate strutture fisiche specie degli appartenenti ai ceti meno abbaienti, da generazioni abituati a un'alimentazione non solo scarsa, ma siprattutto a base di carboidrati, povera quindi tanto di grassi quanti di vitamine. Coseguenze di tutto ciò furono una più accentuata mortalità infantile, un generalizzato flettersi della <<speranza di vita>> e l'insorgere della caratteristica sequenza di carestie e di epidemie: quete ultime ebbero buon gioco nell'abbattersi su una popolazione fisiologicamente indebolita dalla scarsa e cattiva alimentazione. Dopo le <<febbri>> che reiterate influirono nel secondo decennio del secolo, accompagnate da un clima freddo e umido, la peste che dilagò per l'Europa fa 1347 e 1350 e infine - sia pur a irregolari intervalli - a partire dal 1380, si associò alla fame e alla guerra nel colpire pesantemente la popolazione europea e determinarne una netta regressione demografica. Era davvero il tempo dei Cavalieri dell'Apocalisse. 

Caratteristico dell'epoca, accanto al contrarsi delle popolazioni urbane - entro le cinte murarie cittadine, fino a tutto il Duecento piene come uova, si andarono allargando spazi tenuti a giardini, orti e perfino pascoli - , fu il fenomeno dei cosiddetti <<villaggi abbandonati>>, veri e propri insediamenti che la pressione demografica dei decenni precedenti aveva obbligato a impiantarsi in territori non sempre favorevoli (aree di alta collina o di fondovalle minacciate dalle paludi) ma che, appena la falce della morte ebbe diradtao gli abitanti, furono i primi a venire abbandonati. Il fenomeno, pesante in Franca e in Germania, lo fu molto meno tuttavia in Inghilterra.

Il momento più drammatico della <<crisi del Trecento>> fu la Peste Nera del 1347-1350. che però era stata originata e poi accompagnata e seguita da un complesso di concause che interagirono: climatiche (un generale raffreddamento dell'intero emisfero boreale e quindi un susseguirsi di cattive annate agricole, specie a partire, come s'è detto, dal secondo decennio del secolo), demografiche, socioeconomiche (il malesseere espresso specialmente dalle rivolte cittadine e contadine degli anni  Quaranta - Ottanta), politico-istituzionali, religiose (le eresie, lo scisma del 1378-1417).



La <<guerra dei Cent'Anni>>, fra 1337 e 1338, comportò come conseguenza indiretta ma quasi immediata il crack finanziaro delle grandi banche fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaioli e di altri che avevano investito capitoli ingenti tanto in Francia quanto in Inghilterra. La causa immediata del conflitto fu il vuoto dinastico creatosi con la morte senza eredi maschi, il 1° febbraio 1328, del trentatreenne Carlo IV, ultimo re di Francia diretto discendente della dinastia capetingia. Egli si era sposato tre volte: la terza moglie, Giovanna d'Eveux, era allora incinta e partorì poco dopo una bambina.

L'assemblea dei baroni del regno decise pertanto di offrire la corona a un cugino germano del defunto re, Filippo, figlio di quel Carlo di Valois fratello di Filippo VI il Bello che aveva più volte tentato con poca fortuna la sorte, come candidato alla signoria di Firenze e addirittura alla corona imperiale. In tal modo Filippo di Valois divenne Filippo VI re di Francia

Nel 1066 il trono dell'ormai faticosamente unificata monarchia anglo-sassone era stato conquistato con l'appoggio pontificio da Guglielmo duca di Normandia, che era venuto così a trovarsi in una delicata per quanto all'epoca non inconsueta situazione: come re d'Inghilterra, in condizione paritaria con il sovrano di Francia, ma come duca di Normandia, feudo francese, era vassallo. La questione si era ulteriormente complicata con l'insediamento del 1154 sul trono d'Ingliterra di una nuova dinastia, quella dei Plantageneti duchi d'Angiò: il nuovo re Enrico II sposò Eleonora duchessa d'Acquitania, che era stata ripudiata da Luigi VII re di Francia, e in tal modo divenne a vario titolo signore di gran parte del territorio francese. Tra la fine del XII secolo e i primi del XIII, sotto il regno di Filippo II Agusto, la compagine francese si andò pian piano ricostituendo grazie a un'articolata politica dei trattati, di acquisizioni matrimoniali, di sistemazioni feudali, di colpi di mano, di vittorie militari come quella di Bouvines nel 1214. Grazie ai re francesi del Duecento, soprattutto a Luigi IX il Santo, l'influenza e la presenza politica inglesi furono ulteriormente ridotte. Nel 1329, allorché Edoardo III d'Inghilterra  - dopo aver protestato contro la scelta dell'aristocrazia francese che lo escludeva dal trono di Francia - si decise a rendere omaggio a Filippo VI per i suoi processi feudali al di qua della Manica, essi erano ridotti all'area sudoccidentale dell'antica Acquitania - Guascogna (cioè il ducato di Guienna tra la Gironda e i Pirenei) e al modesto territorio costiero del Ponthieu incuneato fra Normandia e Artois, a sud del canale della Manica.

Un'area d'attrito molto importante era quella fiamminga, caratterizzata da ricche e operose città in stretto rapporto con l'Inghilterra dalla quale le manifatture tessili di Fiandra importarono la materia prima, la lana. In seguito a un rinnovato tentativo dei comuni fiamminghi di liberarsi dalla seconda tutela del re di Francia, Filippo VI aveva ordinato e guidato una dura repressione: per tutta risposta i capi della ribellione di Fiandra avevano incoraggiato il re d'Inghilterra a reclamare i suoi diritti al trono francese troppo presto lasciati cadere. Così mentre Filippo nel 1338 dichiarava Edoardo decaduto in quanto vassallo infedele dai suoi feudi francesi, questi a sua volta rivendicava il trono francese con l'appoggio dei comuni fiamminghi che lo riconoscevano loro sovrano. 

Edoardo III aveva adottato come sua insegna una croce rossa su fondo d'argento. Si trattava di un simbolo che aveva già una lunga vita: alla terza crociata fra 1189 e 1192, aveva distinto i guerrieri - pellegrini francesi, e nel Duecento era stato usato soprattutto in Italia dalle milizie guelfe incoraggiate da inquisitori e predicatori popolari. Alla terza crociata gli inglesi si erano fregiati di una croce bianca, mentre la simbolica della lotta politica nella penisola italica del Duecento conobbe una croce rossa <<guelfa>> contrapposta all croce bianca <<ghibellina>>.

La croce rossa in campo d'argento era diventata per eccellenza il simbolo della <<guerra santa>> (fin dalla fine dell'Xi secolo una croce rossa cucita sugli abiti era il segno dei pellegrini armati diretti a Geusalemme): e per questo la si era sempre più spesso attribuita come arme araldica al più celebre santo guerriero dell' Occidente, san Giorgio; anche il cavaliere - santo per antonomasia - quel Galaad che nel romanzo mistico-cavallersco duecentesco detto Queste del Graal era rivestito di veri e propri caratteri cristici - portava uno scudo argenteo rosso crociato.

La guerra dei <<Cent'Anni>>; sul piano formale scoppiò come conflitto dinastico per la successione della corona francese, allorché Edoardo III rivendicò - non senza ritardo - i suoi diritti al trono che era stato fino al 1328 suo zio. Ma c'erano in realtà sul tappeto irrisolte questioni vassallatiche e la ricca posta costituita dall'egemonia sulla regione tra la Somme e la Schelda e le sue operose, opulente città.

Niente inoltre, nella Cristianità ocidentale, sembrava potersi paragonare in potenza e in bellezza alla fiera e scintillante cavalleria francese, espressione d'una ricca, superba nobiltà feudosignoriale. Ma le continue guerre ai confini del Galles e della Scozia avevano insegnato agli inglesi come si dovessero adottare le tecniche di combattimento ai terreni scabri, accidentati, disseminati di boschi e di macchie, che la pioggia rendeva sovente pesanti e fangosi. I cavalieri inglesi avevano imparato per tempo dunque a scendere dalle loro cavalcature e a combattere a piedi, usando le loro lunghe lance come picche. 

La superiorità militare inglese ben presto s'impose, sia per l'abilità con la quale Edoardo aveva saputSi o acquistarsi alleati - dai fiamminghi ai bretoni - , sia per l'eccezionale contributo guerriero fornito da forti, feroci, frugali montanari scozzesi e gallesi: fanterie coraggiose e intoccabili che a più riprese riuscirono a uiliare la superba cavalleria aristocratica francese. Ad essi si affiancavano gli arcieri inglesi e gallesi, i bowmen armati dei loro lunghi archi che dal Duecento erano il simbolo stesso della loro condizione di uomini liberi, yeomen e freeholders: contadini soggetti non alla giurisdizione baronale bensì a quella diretta del sovrano.

La freccia lunga era troppo sensibile al vento e aveva una capacità di penetrazione relativamente scarsa, mentre i verrettoni delle balestre erano precisi e penetravano a fondo: in cambio, però nel tempo necessario per un solo tiro di balestra, un arciere riusciva a scaricare cinque o sei volte la sua arma, senza contare la maggiore gittata degli archi rispetto alle balestre. Questi due fattori, combinati, furono uno degli elementi decisivi della superiorità inglese, alla quale contribuirono anche le prime aritiglierie a polvere, le <<bombarde>>.

A Courtray, nel 1302, il fiore della cavalleria di Francia fu umiliato dalle intrepide e feroci fanterie comunali fiamminghe: <<battaglia degli sproni>> fu chiamata quella giornata in cui la gente di Fiandra ammassò in grossi mucchi i lunghi aurei speroni dei nemici atterrati. Allo stesso modo, o in modo molto simile, i cavalieri francesi furono spesso battuti fra Tre e Quattrocento. A Poitiers fu preso prigionieo anche il re di Francia Giovanni II il Buono, il quale, condotto in Inghilterra, lasciò un regno in preda a ricolte borghesi e contadine (le celebri Jacqueries). Intanto, gli inglesi avevano anche distrutto la flotta nemica e si erano impadroniti saldamente di Calais.

A Crécy nel 1346, a Poitiers nel 1356, più tardi ad Anzicourt nel 1415 - l'orgoglio nobiliare francese fu umiliato: dinanzi alle cariche o andate della cavalleria francese gli inglesi opposero una linea sottile ma micidiale di arcieri, rinforzata da cavalieri appiedati. Il cronista Froissart ricordava un cielo di battaglia bianco di frecce, come per una terribile nevicata. I cavalli francesi cadevano crivellati di frecce disseminando il disordine, intralciando e scompaginando le andate successive della cavalleria, obbligando i cavalieri che venivano loro dietro a dar di volta ai loro destrieri o a rinculare: ed erano la confusione, il panico, la fuga. A questo punto i loro colleghi e avversari inglesi rimontavano in sella e, appoggiati da reparti freschi fin allora tenuti di riserva, piombavano su di loro per il colpo di grazia. 

Si giunse nel 1360 alla pace di Brétigny: Edoardo III rinunziò alle sue pretese sulla corona di Francia, in cambio del riconoscimento della sovranità sulla Guienna che faceva di lui il padrone di tutto il Sudovest. Ma la guerra riprese nel 1369: sotto la guida del nuovo re Carlo V il Saggio i francesi, ammaestrate dalle sconfitte della precendente fase bellica, evitarono gli scontri frontali e le battaglie campali dandosi in cambio a una serrata tattica di guerriglia, nella quale fu maestro il conestabile Bertrard du Guesclin.

La prima fase del conflitto si chiuse con un'ambigua battuta d'arresto determinata dalle morti, a breve distanza fra loro, di Edoardo III d'Inghilterra e nel 1377 di Carlo V di Francia nel 1380. In entrambi i paesi i diritti al trono erano passati a due minorenni, Riccardo II al di là della Manica, Carlo VI al di qua di essa: ed entrambi si erano trovati a dover subire la tutela dei loro nobilissimi parenti, mentre i due paesi erano preda d'un regresso demografico di ampie proporzioni e venivano percorsi da continui fermenti di rivolta sia nelle città sia nelle campagne. Era quello, del resto, un altro aspetto di quella vasta fase involutiva della storia euro - occidentale del XIV secolo. 

Carlo VI al ventesimo anno d'età - la tutela edi suoi potenti e discordi zii, i duchi Luigi d'Angiò, Giovanni di Berry e Filippo di Borgogna. Il matrimonio fra il giovanissimo sovrano e Isabella di Baviera non migliorò la situazione: la lotta per il potere effettivo andò radicandosi tra due fazioni, i partigiani di un altro zio di Carlo VI, il duca Filippo di Borbone, e i sostenitori del fratello del re, Luigi duca d'Orléans. Mentre in Inghilterra la situazione era andata assestandosi a partire dal 1399 con l'ascesa al trono della dinastia dei Lancaster, in Francia il troppo lungo regno del debole Carlo VI - caduto anche preda della follia - aveva consegnato il paese ai capi dei grandi <<principati d'appoggio>> che se lo contendevano: i duchi di Berry, d'Orléans, d'Angiò e Provenza, di Borgogna. Ben presto, l'accanita lotta per il potere si sarebbe ristretta a Filippo l'Ardito duca di Borgogna, senza dubbio l'uomo più potente e il politico più saggio del regno, e a luigi d'Orléans. Con la morte di Filippo, nel 1404, il duello sarebbe continuato con suo figlio Giovanni, che qualche anno prima, alla crociata, si era guadagnato il cavalleresco epiteto di <<Senza Paura>>: egli aveva preso in tutti i sensi il posto ed assunto il ruolo del padre.

Giovanni era dotato d'una fredda e spregiudicata lucidità politica: mancava però dell'autorevolezza e della prudennza paterne, Borgonga e Orléans si misuravano e s'intralciavano a vicenda. Giovanni impediva a Luigi d'insignorirsi di Genova che in quel momento era alla ricerca di un protettore; e questi in cambio impiantandosi nel Lussemburgo, rompeva le uova nel paniere alla politica borgognona d'egemonia sui Paesi Bassi. La rivalità si estendeva ai grandi problemi politici: il duca d'Orléans si ponunziava formalmente entro le pretese dei Lancaster che non avevano rinunziato alle loro mire sul trono di Francia, mentre quello di Borgogna rispondeva assumendo un atteggiamento possibilista; il primo ribadiva l'ormai tradizionale lealismo al papa avignonese nella questionde dello scisma nato nel 1378, e il secondo ribatteva avvicinandosi al pontefice di Roma. 



La corte mostrava dunque di propendere ormai per il duca d'Orléans, anche perché egli sembrava aver del tutto dalla sua cognata la regina: senza dubbio fra i due v'era un'intesa, forse una forte complicità politica, ma si sussurrava con sempre maggior consistenza che essi fossero anche amanti. Qual'era il vero segreto dell'ascendente del fascinoso sulla sovrana? Giovanni di Borgogna fremeva: la sua politica di potenza e di splendore dinastico l'aveva ridotto pieno di debiti e quasi in miseria, mentre il cugino gli negava qualunque accesso alle finanze pubbliche, l'unica risorsa che gli avrebbe consentto di risollevarsi. Decise quindi, alla sua maniera fredda e violenta di risolvere il problema. La notte del 23 novembre 1407 il nodo gordiano fu reciso.

Il <<pasticciaccio brutto di Rue Ville - du Temple>>: lì, a Parigi, nella notte del 23 novembre 1407 alcuni sicari assassinarono Luigi duca d'Orléans, uno dei padroni della Francia del tempo; o di quel che ne rimaneva. Veramente la fama di freddezza e d'intrepido animo del <<Senza Paura>> non resse troppo, in quel frangente, alla prova. Al funerale del cugino aveva ostentato un grande dolore: ma scenate del genere, con pianti e stracciamenti di vesti, erano del tutto naturali nel gusto del tempo. Non appena si rese conto però che le indagini stavano portando diritto al suo Hotel d'Artois, dov'egli teneva nascosti gli assassini, prima conferì con lo zio Giovanni di Berry confessandogli di aver fatto uccidere il cugino per istigazione del diavolo - che, come tutti sanno, ha sempre ogni colpa -, quindi sfuggì al sicuro nella sua Fiandra e da Gand affidò a Simon de Solux l'incarico di scrivere un primo memoriale in cui si giustificava il delitto. 

Si consigliò ad Omines con due retori e studiosi  che nel 1406 a Parigi, avevano discusso il problema dello scisma pontificio: Pierre aux Boeufs e soprattutto il brillante maestro di teologia Jean Petit uomo di fiducia della casa di Borgogna e sostenitore deciso della causa del pontefice romano. Noi lo chiamiamo Jean Petit perché così siamo abituati a fare, ma è incerto si tratti di un nome e un cognome: per il cancelliere dell'Università di Parigi Jean Gerson, che lo detestava, egli era Johannes Parvus <<Giovanni il Piccolo>>.

La faccenda di Luigi d'Orléans fu discussa in pubblico. L'8 marzo del 1408, all'Hotel de Saint - Pol dinanzi a un uditorio di gran livello: il Consiglio reale, nel quale sedevano tra gli altri il re di Napoli Luigi II d'Angiò, Giovanni dica di Berry e Giovanni VI il Buono duca di Bretagna - Jean Petit recitò il suo lungo memoriale intitolato Justification de monseigneurle dic de Bourgogne sur le fait de la mort ed occision de feu le duc d'Orléans.

Il tema scelto era il versetto biblico <<Radix omnium malorum cupiditas>>, svolto con razionale distinzione scolastica e con dovizia d'erudizione sacra e profana. Il centro dell'assunto corrispondeva a un veccio argomento, su cui avevano lavorato i Padri della Chiesa e i Maestri scolastici - e su cui avrebbero più tardi insistito i monarcomachi ugonotti e gesuiti - : la legittimità dell'uccisione del tiranno. In un'accurata sequenza di comprovate realtà e le spudorate calunnie. Sarebbe stato Luigi a organizzare, nel 1392, quel <<Bal des Ardents>> al quale il misero re folle Carlo VI - che in quell'occasione avrebbe dovuto essere assassinato - era sfuggito per caso; ancora, nel festoso convento dei celestini, il vizioso duca si sarebbe intrattenuto col <<mago>> Filippo di Méziéres in progetti di morte o di veneficio; del resto, Luigi avrebbe assistito di sua volontà, anzi in seguito a una precisa programmazione, a un'evocazione demoniaca celebrata da un frate allontanato dal suo Ordine, nel corso della quale i due diavoli Heremas ed Estramain, apparsi in abiti verdi (era, quello, un dei colori diabolici d'ordinanza), avrebbero consacrato delle armi e un anello prima che il nefando rito si concludesse con il furto del corpo di un impiccato, asportato dalla forca. La Justification si accaniva in modo speciale contro il ppovero Filippo di Méziéres mistico allievo di Pietro Thomas romanntico ideatore di corciate e di riti cavallereschi.

Il successivo 11 settembre, l'abate Thomas di Cerisy presentò una controdimostrazione, abbiamo notizia di un progetto di replica del Petit a tale documento, ma pare non se ne facesse di nulla. Ad ogni modo, dopo un primo istante di entusiasmo per l'abilità retorica del maestro filoborgognone, la violenza e la tendenziosa capziosità del suo assetto finirono con l'attirargli una quantità di critiche e di ostilità anche feroci. Fosse la durezza degli avversari a provocare il suo isolamento, fosse piuttosto la sostanziale ingratitudine del duca di Borgogna a determianre l'emarginazione, i retore un tempo adorato dalle folle parigine e dalla raffinata gente di corte si spense ormai dimenticato a Hendin nel 1411. La Justification fu denunziata dal Concilio di Costanza, ora che la questione dello scisma si andava risolvendo, gli estremisti dell'una e dell'altra parte andavano scaircati, e Jean Petit si era troppo compremesso con il partito romano. 

Ormai comunque il veleno sparso dal Petit e dai suoi pari aveva sortito lo stesso effetto: e come dice il buon William Shakespeare, il malanno era combinato. La lotta tra gli <<armagnacchi>> - così chiamati dal conte Giovanni I d'Armagnac, suocero del nuovo duca d'Orléans Carlo, figlio dell'ucciso - e i <<borgognoni>> era ormai cominciata. Giovanni <<Senza Paura>> non avrebbe mai perdonato a Jean Gerson - che un tempo era pur stato appoggiato dalla sua famiglia - le sparate contro quel Petit che, tuttavia egli aveva presto dimenticato, con scarsa riconoscenza per i servizi resi. Il cancelliere dell'Università di Parigi, terminato il Concilio di Costanza, non sarebbe potuto rientrare nella sua città ormai egemonizzata, da partigiani che portavano cucita sui berretti e sul petto la bianca croce di Sant'Andrea, il patrono della dinastia borgognona.  

Il cronista Enguerrand de Monstrelet si servì di quel testo prolisso e mediocre, prezioso tuttavia per chi intenda studiare i meccanismi del consenso e della propaganda del XV secolo; per chi voglia capire come a quel tempo, si seguisse il peraltro antico sport di sbattere il mostro in prima pagina e di fondare sulla menzogna e sulla calunnia i miti politici del momento. 

Il delitto aggravò il già durissimo scontro fra i due partiti dei <<borgognoni>> - appoggiati di nuovo dalla regina Isabella nonché dall'Università di Parigi e dai violenti borghesi della capitale desiderosi d'un governo libero ed efficiente - e degli <<armagnacchi>>. Giovanni <<Senza Paura>>, decise a questo punto di risolvere la situazione liberando il regno dall'instabilità in cui lo stava mantenendo l'incapace Carlo VI: sollecitò il nuovo e d'Inghilterra, Enrico V di Lancaster, a riprendere il cammino dei suoi successori verso il regno di Francia. Strumento del rinnovarsi della prretesa al trono fu la richiesta, da parte di Enrico, della mano di Caterina di Valois del sovrano francese. Il partito armagnacco, tuttavia, rifiutò di piegarsi alla nuova situazione e appoggiò i diritti el fratello di Caterina, i <<delfino>> Carlo (l'erede al trono di Francia si chiamava delfino dal soprannome dei conti del Delfinato, area alpina nordoccidentale divenuta fin dal 1349 suo appannaggio); Enrico rispose sbarcando nel 1415 in Francia ad Harfleur, con un esercito di 6000 uomini, con i quali batté gli avversari nella battaglia campale d'Anxicourt. 

La morte di Giovanni <<Senza Paura>>, fatto uccidere quattro anni più tardi in un agguato al ponte di Montereau dal delfino Carlo - chhe intendeva in tal modo vendicare Luigi d'Orléans, ma soprattutto punire colui che era stato la causa prima dela crisi dei suoi diritti alla corona - non incise sul corso degli avvenimenti; anzi, indusse il nuovo duca di Borgogna Filippo III, succeduto al padre ucciso, ad appoggiare con maggioe e più decisa forza il sovrano di casa Lancaster che veniva a strappare ogni diritto e ogni speranza al principe assassino, sospettato olretutto d'essere il frutto illegittimo degli amori di Isabella di Baviera e il cognato Luigi d'Orléans. Le nozze tra Enrico d'Inghilterra e Caterina di Francia, celebrate nel 1420, furno accompagnate dal trattato di Troyes, mediatore e regista del quale fu il nuovo duca di Borgogna: con esso si stabiliva che Enrico V d'Inghilterra, sarebbe asceso al trono francese alla morte del suocero mantenendo tuttavia separate le due corone. Contestualmente, Carlo VI diseredò suo figlio Carlo, il delfino. 

Il delfino s'incaricò tuttavia di evitare che il meccanismo previsto dagli accordi di Troyes funzionasse come si era previsto. In un medesimo anni il 1422 vennero a mancare a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro Enrico V e Carlo VI. Ma la regale coppia d'Inghilterra aveva fatto in tempo a generare un figlio, al quale era stato imposto il medesimo nome del padre. Fu lui, col nome di Enrico VI, a cingere la sua povera testolina d'infante - ancor prima di cominciare a camminare e a parlare - delle due pesanti corone di Francia e d'Inghilterra. 

La Francia si trovò divisa in tre blocchi. Il Nord e l'Ovest del paese erano governati dagli inglesi sotto il pugno di ferro di Giovanni duca di Bedford, zio del re-bambino, a oriente si stendeva la complessa, variegata, ricca, operosa area percorsa dalla Mosa che collegava le Alpi al Mare del Nord e che a vario titolo era posseduta o comunque governata dal duca di Borgogna, quel Filippo - detto <<il Buono>> dai suoi borghesi che gli erano grati per la generosità del regimme fiscale - alleato sicuro e potente degli inglesi ma teso a una politica europea di vasto respiro, che guardava ad est verso l'Impero romano-germanico; infine, a sud della Loira, il dominio del delfino Carlo - per dileggio detto <<re di Bourges>> - teneva con poca sicurezza e scarsa energia, insieme un paese dall'ampia estensione ma dalla vita civile incerta, fortemente condizionato nella sua stessa compagine dalla Guienna, enclave inglese tra Gironda e Pirenei. Molte erano però le zone marginali e confinali sulle quali l'autorità era contestata e nelle quali ribollivano le passioni e le lotte partigiane. 

La guerra, le carestie, le pestilenze avevano impaurito, stancato, prostrato le povere genti di Francia come di tutta Europa. Frequenti nella seconda metà del Trecento, erano state anche le sollevazioni contadine e quelle cittadine. La pressione fiscale resa necessaria dalla guerra endemica, aveva esasperato gli strati più umili della popolazione, che le continue incursioni delle bande di mercenari - relativamente poco pericolose in guerra, ma ben più avide e feroci durante le fasi di tregua, quando restavano momentaneamente disoccupate - riducevano periodicamente alla disperazione. L'inquietudine spirituale e religiosa teneva dietro all'instabilità sociale ed economica. La Chiesa sorvegliava attentamente con i suoi predicatori popolari e i suoi strumenti inquisitoriali, per impedire il dilagare della propaganda eretiicale, ma alle istanze mistiche sempre più forti non solo tra religiosi, bensì anche tra i laici, (e tra le donne), faceva riscontro una sensibilità collettiva eccitata dalla paura e dalle sofferenze, sensibile al ritorno di antiche superstizioni e al radicarsi di nuove, attenta alle voci che parlavano di sogni, di visioni, di apparizioni demoniache, di mostri, di prodigi. Era il tempo delle grandi processioni penitenziali, come quella dei <<Bianchi>> che alla vigilia del nuovo secolo, portavano a Roma migliaia di pellegrini e di flagellanti, era il tempo delle grandiose e paurose rappresentazioni della Morte che trionfa su tutte le cose e che danza con tutti. 

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