lunedì 24 luglio 2017

Maria la sanguinaria

Maria la sanguinaria 

Nel febbraio 1511 uno stuolo di servi affollava il recinto del palazzo di Enrico VIII a Westminster, affrettandosi a sistemare il terreno, a trasportare armature e finimenti, a decorare con arazzi e drappi intessuti di filo d'oro le pareti del padiglione in legno eretto per gli spettatori. Era stata indetta una giostra solenne per festeggiare la recente nascita dell'erede di Enrico VIII il principino Enrico, duca di Richmond e di Somerset, grande speranza della dinastia Tudor. 


Caterina d'Aragona


Caterina d'Aragona la figura grassoccia celata da un vestito scuro con le maniche nere e dorate. Alla gola appeso a una cattena, la regina portava il suo emblema, il melograno di Spagna, e alberi di melograno erano stati dipinti sugli arredi del padiglione. Circondata dalle dame in abiti sontuosi dai nobili e dai funzionari della corte; tutti in velluto e con le pesanti catene d'oro che ne indicavano il rango, Caterina fu al centro dell'attenzione, via via che una folla di londinesi si assiepva sulle panche per assistere allo spettacolo. 

Fu visto avanzare lentamente un enorme carro largo quasi quanto il recinto e tanto alto da sovrastare il padiglione una sorta di vasto palcoscenico montato su ruote e fornito di scenario, arredi e attori. Sul fondale, drappi di damasco verde, sete e satin colorati creavano l'immagine di una foresta, con colline ricoperte di erba, rocce, alberi e una variegata quantità di fiori. In primo piano, tra gli alberi, si notavano i guardaboschi con il costume di tessuto di Lincoln e armati di lance di legno, mentre al centro si erge un castello dorato. Dinanzi al cancello dell'edificio, tra felci di seta era seduto un gentiluomo assai ben vestito, che stava intrecciando una ghirlanda di rose per il principino appena nato. L'elaborato scenario appariva trainato da due grossi animali selvatici - un leone di damasco dorato e un'antilope di damasco argentato, con corona e denti d'oro - cavalcati da due belle donne. 

La foresta si fermò, i guardaboschi diedero fiato ai corni e da quattro varchi nelle finte colline ucirono quattro <<Cavalieri della foresta>>, che subito dal palco balzarono a terra con i cavalli, ognuno nascosto dall'armatura con in capo un elmo piumato e in mano una lancia. Per quanto le visiere celassero le facce, i presenti capirono immediatamente dall'altezza che uno dei quattro cavalieri era il re in persona, un bel ragazzo di diciannove anni. Sulle gualdrappe dei cavalli erano ricamati i nomi cavallereschi scelti dai quattro difensori del castello: Cuore leale, Valente coraggio, Impavido valore, Felice pensiero.

Enrico non trionfò sugli avversari solo perché era il re, come ci si aspetterebbe, ma perché li superava veramente tutti in altezza, forza e valore. Secondo i paarametri cinquecenteschi, il sovrano era un uomo molto alto: una sua armatura da combattimento conservata nella Torre di Londra può essere indossata da un uomo di circa 1.85 m e la taglia di una sua armatura da torneo fa pensare che potesse essere stato aancora più alto. Al pari di Riccardo cuor di Leone e del nonno materno Edoardo IV, Enrico torreggiava sui cortigiani e sugli uomini della scorta e quando camminava tra la folla lo si distingueva con facilità. Oltre a essere alto, era di corporatura possente con ampie spalle, braccia e gambe muscolose e senza l'ombra di quella ripugnante pinguedine che lo avrebbe angustiato verso la fine della sua vita.  


Enrico VIII


L'abilità nella giostra, un esercizio in cui si allenava regolarmente due giorni alla settimana, richiedeva sia precisione di mira che ferrea resistenza ai ripetuti copli alla testa e al torace. Per vincere un torneo era necessario non solo rompere il maggior numero possibile di lance, ma romperle sugli elmi piuttosto che sulle selle o sulle corazze degli avversari; e comportava un'immediata squalifica colpire il terreno o la barriera più di due volte, colpire il cavallo invece che il cavaliere, perdere due volte l'elmo oppure - impensabile disonore! - colpire un cavaliere che fosse disarmato o di spalle. 



Il re fu applaudito e acclamato ancora una volta mentre cavalcava fuori dal recinto, sempre sotto le spoglie dii Cuore leale. Il tronfo rafforzò di nuovo il legame che univa gli spettatori al giovane eroe con un sentimento più forte della lealtà verso un sovrano e non molto diverso dalla gratitudine verso un salvatore. 

Il giorno successivo i combaattimenti furono preceduti da un corteo di cavalieri culminato nel solenne ingresso di Enrico, non mascherato ma in veste di ssovrano, distinto e protetto dal baldacchino reale. La regina e le dame d'onore già al loro posto, i trombettieri avevano convocato i giostranti ed era arrivato allora un folto stuolo di gentiluomini che in fila indiana aveva percorso su e giù la lizza, saggiando i cavalli e sfoggiando armi ed emblemi. Subito dopo avanzati i pari del regno investi ruggine e oro, alcuni appartenenti agli ordini cavallereschi con abiti dello stesso colore e un gruppo più folto di gentiluomini e di piccoli proprietari a piedi, i primi in abiti di seta, i secondi in vesti di damasco, calze rosse e cappelli gialli. Questi ultiimi circondavano il re e sostenevano il suo baldacchino: questo era di velluto rosso e panno d'oro, ornato da una fitta frangia di fili d'oro e sovrastato da una corona imperiale, tutto coperto di ricami, tra cui spiccava ripetutamente il monogramma di Caterina, la lettera K di Katherine. Enrico indossava un'armatura splendente e cavalcava un impettito destriero, con una bardatura in oro e un corno attaccato alla fronte, come fosse un unicorno. 

Il premio vinto al torneo in onore del principino fu solo il coronamento del maggior trionfo già ottenuto: la nascita dell'atteso erede. Nessun regno era sicuro, nessuna lealtà di popolo garantita finché chi occupava il trono non avesse avuto un figlio maschio destinato a succedergli; ora che l'erede era nato, Enrico poteva finalmente rilassarsi e congratularsi con se stesso almeno per un poco; poteva addirittura permettersi di guardare con fiducia al futuro. A suo tempo il principino sarebbe divenuto re con il nome di Enricco IX, il terzo della casa Tudor e il nono di una dinastia di principi che risaliva a cinque secoli addietro: Enrico I, figlio di Guglielmo il Conquistatore; Enrico III patrono della cultura e costruttore di cattedrali; Enrico IV avventuriero e fondatore del malaugurato ramo Lancaster; Enrico V, l'amato principe Hal, il leggendario vincitore di Angicourt; Enrico VI, il cui lungo regno si era chiuso con la follia e con il caos della Guerra delle due Rose, Enrico VII che aveva posto fine a quella guerra con la vittoria di Bosworth; e infine l'esuberante Enrico VIII, un giovanotto che, a parte quella di esperto giostratore, doveva ancora conquistarsi l'ambita fama di abile soldato, diplomatico e sovrano. 

Dietro il sovrano entrarono in campo i tre cavalieri del giorno prima, ciascuno accompagnato da cinquanta attendenti a piedi e al riparo di un baldacchino color cremisi e porpora, sormontato da una grande K dorata. E infine, per ricordare a tutti il principino assente, il bimbo la cui nascita si festeggiava con le giostre, apparvero dodici <<paggetti d'onore>>, vestiti in fogge diverse e seduti su grandi cavalli da guerra. 

Mentre il pubblico guardava verso il lato opposto della lizza per vedere l'ingresso della squadra avversaria, capeggiata da Charles Brandon, duca di Suffolck, il migliore aamico del re, il vocìo della folla tacque di colpo. Invece del corteo di gentiluomini in assetto da giostra e annunciato da squilli di fanfara, si vide infatti avanzare in silenzio una figura solitaria che si diresse verso il padiglione in cui sedeva Caterina, un uomo non abbigliato da cavaliere, ma avvolto nel saio scuro indossato dai monaci o dai reclusi. Fermato il cavallo dinnani alla regina, l'uomo le chiese il permesso di giostrare in sua presenza, aggiungendo che se glielo avesse accordato avrebbe iniziato subito, altrimenti sarebbe andato via senza dire altro. 

Il monaco altri non era che il vigoroso Brandon e gli spettatori l'osservarono ammiraati indossare la corazza e l'elmo e impugnare la lancia. Bardato e addobbato il cavallo, Brandon si avviò verso il posto assegnatogli: al suo seguito si mosse un piccolo carro che trasportava una torretta, da cui Henry Guilford, il principaale difensore della giornata, vestito di marrone e argento. Anch'egli e i suoi attendenti in livrea chiesero a Caterina il permesso di giostrare, così come fecero il marchese di Dorset e Thomas Boleyn, conte di Wiltshire, apparsi nelle vesti di pellegrini di ritorno dal santuario spagnolo di San Giacomo di Compostela, i bastoni e le conchiglie d'oro, simbolo del santuario, quali loro unici ornamenti. 

Non appena i difensori furono al loro posto, la giostra cominciò e, alla fine, il re e i suoi tre compagni avevano di nuovo sconfitto gli avversari. Perché ruppe il maggior numero di lance, o forse perché compì la rara impresa di buttare a terra, cavaliere e cavallo, come si sa che egli fece durante un'altra giostra nel 1515, Enrico ottiene il primo premio in virtù del <<valoroso comportamento>>.

Enrico non era ancora sceso in campo, nella poliica europea, anche se il suocero Ferdinando d'Aragona, lo stava spronando a scagliare la fora del denaro e delle armi inglesi contro il predominio della Francia. Anche in Italia il papa, il bellicoso Giulio II, era in cerca dell'appoggio di Enrico nella guerra che combaatteva contro i francesi. 

Con l'imperatore Massimiliano d'Asburgo, personaggio di scarso acume e impoverito, ridicolizzato in Europa cmoe <<l'uomo da quattro soldi>>, Enrico aveva avuto poco a che fare, mentre l'anziano re francese Luigi XII non vedeva nell'inesperto e giovane monarca inglese, una grave minaccia ai propru ambuziosi disegni. All'inizio del 1511 il canpo di battaglia delle potenze europee era l'Italia, dove un'intera generazione di eserciti francesi e spagnoli si era contesa e spoglie delle Signorie rinascimentali. La Francia aveva trionfato, per il momento ma l'altro grande signore della penisola, il pontefice, era determinato a ricacciarla fuori dai suoi confini. 

La nascita dell'erede offriva ora a Enrico un ulteriore mezzo di scambio: i suoi rappresentanti avrebbero cominciato subito a negoziare il fidanzamento del principino. Il credito diplomatico attendibile in virtù di un'alleanza matrimoniale con la Francia il Portogallo o gli Asburgo d'Austria era una prospettiva allettantte e per nulla illusoria. Il neonato sarebbe di certo divenuto un fanciullo promettente e bello, erede di un solido trono; tali qualità, aggiunte ai ricchi forzieri di Enrico, avrebbero assicurato uno splendiido matrimonio. I legati inglesi stavano già diffondendo molte notizie sull'elaborato e fastoso battesimo del piccolo, nonché sull'organizzazione della sua corte personale e del suo Consiglio di Stato.

Caterina d'Aragona era giunta in Inghilterra dieci anni prima, quando Enrico era appena un fanciullo, per sposarne il fratello maggiore, Arturo. L'unione dell'erede Tudor con la figlia minore di Ferdinando e Isabella di Spagna, aveva aumentato il prestigio inglese all'estero, ma solo temporaneamente. Caterina non era rimasta incinta - in seguito, ella avrebbe giurato sulla mancata consumazione, del primo matrimonio - e si era ritrovata vedova a sedici anni dopo la morte del principe di Galles, ammalatosi di tubercolosi. Trattenuta nell'isola quasi, come in ostaggio finché il padre non ebbe pagato l'ultima rata della sua dote, un impegno che Ferdinando era apparso poco incline a rispettare, Caterina aveva trascorso gli otto anni successivi nell'incertezza del presente e del futuro. A parte il titolo di principessa vedova, non avevaa ottenuto altro in tutto il periodo vissuto in Inghiltterra: non aveva denaro, non aveva amici al di fuori del piccolo seguito di servitori spagnoli e rappresentava un'ovvia seccatura per il suocero Enrico VII quanto per il padre Ferdinando. 

Angustiata dall'isolamento Caterina si era rivolta a Dio. All'età di vent'anni aveva decciso di rinunciare al mondo e di sottomettersi alle dure regole di una vita ascetica. A corte qualcuno si era tanto preoccupato dei danni che avrebbero potuto arrecarle gli incessanti digiuni e preghiere da osare scrivere al papa in proposito. Giulio II aveva risposto ordinando alla principessa un regime meno drastico, ovvertendola esplicitamente che le eccessive penitenze minacciavano di compromettere la sua capacità di concepire e partorire dei figli. 

Divenuto re alla morte del padre, nel 1509, dopo aver chiesto e ottenuto la dispensa papale necessaria a legittimare agli occhi della Chiesa la sua unione con la vedova del fratello, Enrico aveva subito sposato la cognata, allettato dagli stessi vantaggi diplomatici che avevano suggerito il matrimonio di Arturo. Con enorme solliievo dello sposo, le dame addette alla camera da letto della regina avevano annunciato che ella era incinta a poca distanza dal matrimonio, celebrato in giugno ma alla fine del gennaio successivo si era avuto un parto prematuro, una bambina nata morta. Nessuno, eccetto il re, due dame spagnole, il medico e il cancelliere di Caterina era stato informato della disgrazia; anzi, Enrico aveva finito che la gravidanza proseguisse, ordinando sontuosi arredi per la nursery e le stanze in cui la regina si sarebbe ritirata a marzo. Caterina che avrebbe voluto nascondere la verità all'infinto aveva affrontato la consueta cerimonia pubblica del ritiro nell'appartamento in cui avrebbe avuto luogo il parto, pur sapendo di non poter protrarre molto oltre l'inganno. Nel trasparente tentativo di salvare la faccia, tramite il suo confessore, si fece circolare la notizia che la regina era rimasta incinta di due gemelli uno solo dei quali era prematuramente nato morto e che ella si era ora ritirata in attesa della nascita del secondo. Ma intanto, tramite informatori, all'ambasciaatore spagnolo era giunta notizia che la regina aveva cominciato ad avere di nuovo le mestruazioni almeno per il momento, e da febbraio alla fine di maggio, tra la confusione generale, si erano susseguite l'una dopo l'altra voci di rigonfiamenti e sgonfiamenti addominali, di scomparsa e ricomparsa di mestrui. Enrico era dispiaciuto e infastidito i consigliei privati furiosi, tutti comunque, ebbero il buon gusto di biasimare per <<l'errore>> non Caterina, bensì le sue dame.

Ad aumentare le ansie della regina si era agggiunta anche la prima documentata infedeltà di Enrico. La donna, sorella del duca scoperto la tresca e raccontato sia al fratello che al cognato tutto ciò che sapeva. Ne era seguita una scenata tra Buckingham e il sovrano con il risultato che il duca mortalmente offeso, aveva abbandonato il palazzo e l'adultera era stata rinchiusa in un convento, segregata da tutti. Enrico aveva quindi sfogato la propria rabbia sulla sorella pettegola, bandendola per sempre dalla corte, fatto che aveva irritato ulteriormente Caterina, molto aamica della donna, e provocato un aspro litigio nella coppia reale. 

Pur tra tanti dispiaceri domestici, quel che Caterina aveva temuto di più era stata la disapprovazione del padre, sicché soltanto verso la fine di maggio aveva trovato la forza d'informarlo della bimba nata morta. Non gli aveva scritto prima, aveva spiegato, perché la nascita di un feto morto <<qui è ritenuta di malaugurio>>, pregandolo di non essere in collera con lei e di vedere la sua sventura <<come una manifestazione della voolontà di Dio>>; e si era premurata di aggiungere la buona notizia di ritenersi nuovamente incinta. 

La gravidanza era giunta a termine senza inconvenientie il parto era stato normale. I dubbi circa la capacità di procreazione della regina erano stati fugati. Il giorno di Capodanno, quaando per tradizione a corte si scambiavano doni preziosi, Caterina aveva offerto a Enrico il dono più prezioso di tutti: un figlio maschio. 

Era stato preparato un lauto banchetto e tutti gli ambasciatori stranieri, insieme ai nobili, cenarono con i sovrani. Dopo che i tavoli furono portati via, i commensali si radunarono di nuovo nella grande sala per assistere a uno spettacolo. Banchi e gradinate di legno ospittavano numerose persone provenienti dall'esterno del palazzo. I cantori della cappella di Enrico, le cui voci vari testimoni definivano angeliche, si esibirono in un interludio e in parecchie nuove melodie composte per l'occasione. Terminati i canti Enrico chiamò a sé O'Donnell, un Lord irlandese; fece poi segno ai menestrelli di cominciare a suonare e si aprirono le danze. 

Nella danza, come nella giostra, di solito Enrico era il migliore di tutti, specie nei rapidi balzi, nelle giravolte e nei passi doppi del salterello. Al cuulmine della festa il re trovò modo di sgattaiolare via inosservato; solo Caterina e pochi altri si accorsero della sua scomparsa. Era uno dei suoi scherzi preferiti quello di abbandonare gli ospiti senza farsi notare, per poi tornare in incognito a capo di un gruppo di giocolieri o dei musici, o quale protagonista di uno spettacolo. 

Verso la fine della sua prima gravidanza Enrico e alcuni cortigiani avevano fatto irruzione nella stanza da letto dellaa regina di mattina presto, travestiti come la banda di Robin Hood e con i volti nascosti da cappucci di ruvido panno. La regina ne era rimasta scossa e imbarazzata: a nessuno era consentito di entrare nelle sue stanze private senza farsi preannunciare. Le dame che la stavano vestendo e pettinando si erano spaventate, i banditi infatti erano armati di lunghe spade, archi e frecce, ma si erano tranquillizzate quando Caterina, ritrovando l'abituale compostezza, aveva assecondato lo scherzo e aveva permesso che, su loro invito, le sue dame danzassero con gli intrusi. 

Pochi minuti dopo laa scompaarsa di Enrico dalla sala da ballo, la musica cessò e i trombettieri annunciarono l'arrivo di un altro palco su ruote, che avanzò con lentezza nella sala, la parte anteriore visibile, la parte posteriore celata da un largo sipario. Un gentiluomo riccamente vestito mosse qualche passo avanti nel finto giardino per spiegare il tema dello spettacolo. Egli si trovava, raccontò, in un giardino delle delizie e sotto un pergolato d'oro erano in attesa uomini e donne che, con il consenso della regina, desideravano intrattenere lei e le sue dame. Caterina rispose che era ansiosa, come tutti i presenti, di vedere all'opera gli attori. 

Nel giardino delle delizie cespugli di biancospino, rose selvatiche e viti fiorite svettavano su un folto tappeto di fiori. Tutta la scena, fatta di damasco seta e satin verde, era chiusa da pilastri coperti da tessuto dorato. Sotto l'aureo pergolato stavano sei donne con vesti verdi e d'argento arricchite da una rete di due lettere d'oro intrecciate, K e H (Henry). Gli abiti e le acconciature delle donne, così come i fastosi corsetti dei loro sei compagni, rilucevano di lustrini, mentre sui cappelli, le calse e le cappe di satin porpora degli uomini erano ricamati in oro sia i loro monogrammi sia i loro nomi: Cuore leale (il re), Impavido valore, Buona speranza, Valente coraggio, Santa fede, Amor leale. 

Alcuni menestrelli in adeguati costumi iniziarono a suonare e le sei coppie volteggiarno in intricati passi che avevano provato per settimane. Tuttavia mentre la danza era ancora in corso, all'improvviso decine di persone, staccandosi dalla folla seduta sulle gradinate di legno, corsero verso il palco per portarsi via gli ornamenti d'oro e d'argento (Alla fine della giostra, il giorno precedente, il palco con la foresta era stato trasferito nella grande sala, dove le stesse guardie del re e i gentiluomini di corte l'avevano fatto a pezzim afferrando ogni pezzo possibile di quei bei tessuti e ognuno di quegli alberi e cespugli modellati con tanta cura. Due degli uomini messi a custodia del carro si erano ritrovati con la testa rotta e gli altri erano stati allontanati di forza. A parte il nudo legno, aveva scritto il Maestro delle feste, non era rimasta una sola cosa che il re potesse ancora usare). Il Lord cerimoniere e o funzionari responsabili della sala si lanciarono verso gli scalmanati chiamando a gran voce le guardie, ma nel timore che scoppiasse una rissa se avessero tentato di usare la violenza, le guardie rimasero ferme mentre il giardino delle delizie veniva completamente divelto dalle assi.  

Enrico, invitò le nobildonne e gli ambasciatori a prendere dal suo costume le lettere d'oro e conservarle come suo ricordo. Nel sentire ciò scrisse un cronista, subito <<la gente comune corse verso il re e strappò le calze e il farsetto a lui e a tutti i suoi compagni>>. Uno dei ballerini, Thomas Knevet, tentò di sffuggire ai saccheggiatori saltando su un'impalcatura, ma quelli gli tennero dietro e anche lui <<perese il costume>>. Solo quando la folla cominciò a spogliare le attrici, Enrico chiamò le guardie reali. 

Ormai al sicuro in camera sua, al piano superiore, Enrico ordinò una cena di mezzanotte per tutti i sopravvissuti al tumulto. Più divertito che adirato per l'accaduto, il sovrano <<trasformò l'imprevisto sccheggio, in un allegro gioco>> e ssuggerì agli amici di considerare i preziosi oggetti persi come un'elargizione volontaria, distribuita agli spettatori in segno d'onore. 

I londinesi e i cortigiani avrebbero ricordato a lungo la solenne giiostra del febbraio 1511 e il re campione del torneo, eccelso ballerino, ottimo aattore e alla fine vittima inerme della folla che pure lo adorava. Ma l'oggetto dei festeggiamenti, il principino appena nato l'avrebbero tutti dimenticato ben presto. Nonostante le cure delle balie e le calde culle del palazzo Richmond, il piccolo cresceva malaticcio e morì otto giorni dopo la fine del torneo. 
Caterina, chhe era stata lontana dal figlio per settimane era inconsolabile. L'adorato bambino era morto, e con lui l'avverato sogno di maternità. Enrico atterrito e sconvolto dal dolore, piangeva, imprecava, sbraitava con i servi. I grandiosi progetti per il futuro suo e dell'erede erano svaniti di colpo. Per qualche tempo consolò la moglie, poi scappò via per smaltire le sue frustrazioni nei tornei. 

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