giovedì 29 novembre 2018

Maria la sanguinaria. La Principessa III

Maria la sanguinaria

Parte I La principessa III

Prego ogni giorno che le loro pene siano alleviate e che presto siano mandati dove staranno meglio, senza malattie o avversità. 


Nell'inverno 1517, alla metà di gennaio, un forte gelo colpì Londra. Le strade erano coperte di neve indurita e scivolosa, le acque del Tamigi ghiacciate in profondità. Coloro che avevano da sbrigare affari a corte erano costretti ad andare a Londra a Westminster a piedi invece che in battello, e poiché il fiume non dava segni di disgelo i cittadini aprirono infine un camminamento nell'alto strato di ghiaccio. Il tempo non migliorò in febbraio. L'ambasciatore Giustiniani, che doveva recarsi a Greenwich per vedere il re, lamentò che era ancora impossibile utilizzare i battelli e che <<il gelo e le strade pericolose>> trasformarono qualsiasi viaggio in un rischio mortale. Il freddo intenso era sopraggiunto nel mezzo di un periodo di insolita siccità: nell'Inghilterra sudorientale non piovve dal settembre 1516 al maggio successivo. I lussureggianti pascoli verdi avevano assunto un orrendo colore verde marrone, i piccoli corsi d'acqua si erano prosciugati e gli agricoltori, per allevare il bestiame, dovevano spingere le greggi per tre o quattro miglia.

Le vittime del morbo - probabilmente un'influenza con complicazioni polmonari - <<sudavano a dismisura, emanavano cattivo odore, si arrossavano in faccia e sul corpo, avevano una continua sete e soffrivano di febbre alrissima e di mal di capo>>. Sulla testa e sul corpo comparivano poi eruuzioni cutanee e pustolose, da cui talora fuoriusciva siero e sangue, e quasi tutti i malati morivano prima ancora che si potesse ricorrere a una cura. Era in particolare la spietata repentinità del deccesso a terrorizzare la popolazione. La gente s'ammalava per strada. al lavoro, in chiesa; poi correva a casa, dove collassava a terra e moriva. Un medico che aveva studiato per diretta esperienza molti casi scrisse che la strana malattia colpiva <<alcuni mentre aprivano le fienstre, altri mentre giocavano con i bambini dinanzi alla porta d'ingresso; alcuni in un'ora, molti in due; il male distruggeva... chi dormiva e chi era sveglio, gli allegri e i preoccupati, i digiuni e i satolli, gli indaffarati e gli oziosi; e in una sola famiglia talvolta tre persone, talvolta cinque, talvolta di più, talvolta tutti>>. 

Quanti ne ebbero la possibilità, abbandonavano la città imediatamente, ma la maggioranza dovette rimanervi per seppellire i morti, far la guardia ai propri beni, guadagnarsi da vivere. E presto non vi fu alcun luogo in cui rifugiarsi, perché le campagne circostanti erano ormai infette quento la capitale. Verso la metà dell'estate i londinesi si erano ormai quasi assuefatti alla paura della morte, alle porte e alla e finestre sbarrate, ai presunti guaritori che vendevano toccasana preventivi e curativi per le strade, al panico che si diffondeva tra la folla quando un passante, lamentandosi e reggendosi la testa, incespicava nella corsa verso l'ineluttabile fine. L'ambasciatore francese a Londra scrisse in patria raccontando che uomini e donne <<magri come mosche fuggivano in fretta da vie e negozi>> non appena sentivano i sintomi della malattia; la vista di una persona barcollante era sufficiente a creare ovunque un rapido vuoto. In quell'estate morirono decine di migliaia di inglesi, e per i sopravvissui fu un ritorno alle spaventose morie delle pestilenze medievali. Molti giudicavano il sudore anglico, ribattezzato <<Visitazione del Signore>> e <<Segno di Dio>>, peggiore della peste, che almeno aveva un'incubazione più lenta e che lasciava in vita i colpiti per giorni e anche per settimane. 


Erasmo da Rotterdam


L'epidemia del 1517 non era la prima del genere. Nell'state del 1485 e poi di nuovo nel 1508 lo stesso misterioso morbo si era diffuso nell'Inghilterra mridionale, provocato, si era detto, dall'ira divina per la crudeltà del governo di Enrico VII. La sua ricomparsa sotto il regno del figlio determinò l'adozione di una serie di terapie per prevenrilo e curarlo: sembrava evidente che la micidiale infezione apparsa per la prima volta all'ascesa al trono della dinastia Tudor darebbe continuata insieme con essa. Uno dei medicinali più usati era un miscuglio di indivia, cicerbita, calendula, mercurio e belladonna; un altro si basava su <<tre cucchiaiate di acqua e di dracena e una mezza noce di corno di unicorno>> ((nei tesori inglesi venivano conservati con reverenza come corn di unicorno le aguzze punte dei pesci spada). Si raccontava che quest'ultima pozione avesse fatto superare senza problemi un'intera estate di pestilenza a Lord Darcy e trenta membri della sua famigliaa, sebbene fossero stati tutti esposti al contagio. 

Come cura più completa per il sudore anglico passò, cmunque, la triade di prescrizioni messe a punto dal sovrano stesso. Probabilmente a causa della sua paura fobica per tutti i malanni e in particolare per le epidemie, Enrico era diventato un provetto farmacista dilettante, sempre felice di regalare ritrovati per ogni sorta di male ad amici e parenti. La prima fase della cura inventata dal sovrano, la fase preventiva, consigliava un influsso di erbe (tra cui sambuco, erica e zenzero) in vino bianco: bevuto in piccole quantità ogni giorno, per nove giorni, manteneva <<sani per un anno intero, con l'aiuto di Dio>>. Se la malattia avessse colpito prima del non giorno di trattamento, si passava alla seconda fase, curativa, che imponeva una bevanda di acqua di scabiosa e acqua di betonica in parti uguali, addolcita da un quarto di melassa. 

Le medicine di Enrico non riuscirono, purtroppo, a tenere lontana l'epidemia dalla sua corte. Il segretario Ammonius morì il giorno prima della partenza per una casa di campagna situata in una zona non infetta. Wolsey invece scampò a stento alla morte poco dopo, ma un certo numero di cortigiani e servitori non fu alrettanto fortunato. Si ammalarono il vescovo di Winchester, così come l'ambasciatore Giustiiniani e il figlio, e quando cominciarono a soccombere l'uno dopo l'altro i paggi che dormivano nella sua camera da leto, il sovrano cedette al pensiero e decise di trasferire altrove la corte. Con Caterinna e la piccola Maria, tre dei gentiluomini più fidati e l'organista preferito, Dionysius Memo, Enrico raggiunse <<una lontana e insolita abitazione>> per attendersi la fine del pericolo. Tuttavia il morbo lo raggiunse anche lì e le voci di persone morte a pochissima distanza lo spinsero a spostarsi in continuazione, sempre inseguito dalle ondate di contagio. Nel frattempo anche i certigiani si spostavano tra i vari palazzi, nelle speranze di sottrarsi all'infezione, ma nella primavera del 1518, quando l'epidemia raffiorò più virulenta che mai e resa ancora più insidiosa dal morbillo e dal vaiolo che ora l'accompagnarono, i paggi del re ripresero a morire. 

Questi rudiimentali sistemi di quarantena avrebbero dovuto circoscrivere i focolai epidemici, ma non venne presa alcuna misura a proposito dei peggiori agenti infettivi: i cibi, l'acqua, la scarsa o inesistente igiene personale e domestica. All'inizio del Cinquecento Londra era una città di medie dimensioni che si stava rapidamente trasformando in una metropoli superaffollata, soffocata da luridi vicoli e casupole non meno luride. Pulci, pidocchi e cimici si annidavano ovunque: negli oggetti di legno, nei pavimenti, nei letti, negli armadi, insetti di ogni sorta infestavano i contenitori delle derrate e i panni di lana. 
Se le case della Londra tudoriana erano a dire poco principesche, le sue strade era depositi di sporcizia. Non selciate, piene di buche e di sochi, alternativamente fangose o polverose, tutte erano ricoperte di ogni specie di avanzi, rifiuti, lordure. La spazzatura somestica, così come i residui delle pentole da cucina e delle vasche dei tintori vi si mescolava con gli escrementi di cavalli, cani e uccelli. I vasi da notte delle case allinetate su vie e vicoli venivano vuotati ogni mattina o dinanzi agli usci o direttamente dalle finestre sul piano superiore; e, via via che crescevano, i cumuli di rifiuti erano radunati in montagnole ai crocicchi, di dove li si rimuoveva raramente per buttarli nel fiume o trasportarli ai margini delle grandi strade che condicevano fuori città. 

Il più noto censore dei primitivi costumi era Erasmo, il famoso umanista olandese. Nelle lettere agli amici gli sottolineava acccuratamente come le case dell'isola fossero costruite in modo da massimizzare i rifiuti e allo stesso tempo minimizzare l'esposizione all'aria fresca e alla luce del sole. Sarebbe stato necessario, aggiungeva, ripulire le strade dal fango e dall'urina e, soprattutto, abbandonare la deprecabile consuetudine di cospargere di paglia i pavimenti in terracotta delle case per nascondere le briciole di cibo, schizzi di birra e ossi; la paglia veniva cambiata quando l'odore diventava intollerabilmente acre, ma uno strato inferiore, incollato al paviento da anni di sputi, vomiti e <<bisogni di cani>> restava lì, a suo parere, per decenni. Erasmo condannava anche altre abitudini che di certo facilitavano contagi: il superaffollamento nelle taverne male arieggiate, il poco frequente cambio delle lenzuola, l'uso di un unico bicchiere da parte di molti, la mania di baciarsi a ogni incontro. Le vedute di Erasmo cuscitarono un certo consenso, ma anche un risentimento e sbeffeggiamenti. Aveva esagerato, riteneva qualcuno, nel sostenere che perfino le grate dei confessionali, l'acqua e l'olio benedetti dei battesimi e i grandi pellegrinaggi cntribuivano a diffondere le infezioni!

Molta gente collegava le malattie non alle insalubri condizioni di vita ma a fattori soprannaturali. Per ogni medico che curava i pazienti affetti dal sudore anglico aprendo loro le vene per un salasso o rinchiudendoli in una camera caldissima completamente avvolti in coperte (una terapia dall'esito abitualmente letale), erano almeno una dozzina i ciarlatani impegnati ad ammannire rimedi associati a pratiche superstiziose o occultistiche. 
Queste in realtà erano il risultato di una visione fondamentalmente provvidenziale non solo delle malattie ma ance del complesso delle vicende umane. La popolazione dell'età tudoriana accettava le devastazioni del sudore anglico così come accettava i danni delle inondazioni o delle morie in massa del bestiame perché li riteneva compresi in un vasto disegno incomprensibile e invisibile alle creature terrestri. L'autore del disegno era Dio, ma questa credenza era religiosa solo in senso lato: era più che altro una fede nella supremazia dell'ordine sul caos. Nessuno accoglieva di buon grado un'epidemia, eppure tutti traevano un qualchhe conforto dalla convinzione che il malanno era stato mandato da un Potere superiore per uno scopo preciso. 

Morivano le persone <<più giovani e più belle>>, <<gli uomini di mezza età col fisico sanguigno>>. Era più probabile, paradossalmente, che sopravvivessero i più deboli e i più poveri. I bambini, le donne in età feconda, gli uomini macilenti per la fatica e per la fame o erano risparmiati dall'epidemia o, riuscivano in genere a superare la fase critica e infine a guarire. I gentiluomini ricchi e maturi cadevano stecchiti a centinaia. 
Il fatto che il morbo mietesse il maggior numero di vittime tra i membri meglio nutriti, più danarosi e privilegiati della società offendeva la comune fiducia nell'ordine delle cose, prospettando la sconcertante possibilità che l'ordine avesse solo un tenue vantaggio sull'anarchia e che il futuro avrebbe potuto portare l'imprevisto oltre il prevedibile. Minacccia che colpiva diritto la più profonda fobia dell'epoca: il terrore che l'intero ordine sociale potesse frantumarsi. 

Fu in questo periodo di panico e di repentini cambiamenti di residenza che la principessina Mara trascorse i primi mesi di vita. All'inizio la piccola era stata affidata a una nobile balia, Kaetherien Pole, nuora della contessa di Salisbury, che fu poi sostituita da Lady Margareet Bryan, insignir dell'appellativo di <<Lady governante>> e incaricata di dirigere il piccolo gruppo di uomini e donne che costituivano il seguito personale di Maria: le quattro bambinaie (Margery Parker, Anne Bright, Ellen Hutton, Margery Cousine), il lavandaio Avys Woode, il cappellano e il segretario privato, sir Henry Rowte. La principessa aveva anche una sua corte, che era presieduta dalla contessa di Salisbury e che annovervava un ciambellano, un tesoriere, le donne  addette alla camera da letto e vari attendenti, tutti indistintamente abbigliati con i colori di Maria, il blu e il verde. Con l'arrivo dell'epidemia nel palazzo, comunque le formalità, di corte erano state dimenticate e il re si era affrettato a prendere con sé la famiglia e pochi intimi per allontanarsi il più possibile dal pericolo. Dovendo abbandonare le dimore londinesi - gli appartamenti della Torre, lo spazioso Bynard's Castle in Thames Street - e non potendo recarsi nella residenza preferita di Greenwich, sul Tamigi, un bell'edificio di mattoni rossi circondato da verdi giardini piieni di fiori, ma troppo vicino al cuore della città per garantire tranquillità nel dilagare dell'infezione, Enrico aveva trovato dapprima rifugio nel palazzo turrito di Richmond, nel Surrey; tuttavia poco dopo avrebbe saputo che un villaggio vicino era stato raggiunto dal morbo e nel giro di qualche ora sarebbe corso via per cercare zone di volra in volta ritenute più sicure. Dei rigurardi del magnifico castello medievale di Windsor egli provava una profonda avvrsione, lo trovava cupo e troppo simile a un luogo di clausura: a lui piacevano i parchi, le aperte distese della campagna e, possibilmente, la vicinanza del fiume. A Greenwich il sovrano poteva camminare fino al molo per ispezionare le navi e parlare con marinai e cannonieri; a Windsor, invece, si sentiva chiuso tra cortili lastricati e, se entrava nella cappella della Giarrettiera, pativa l'oppressione delle tombe e dei monumenti di cavalieri dell'ordine, di tanti cimeli militari dei Plantageneti suoi predecessori. Le altre residenze di campagna, più lontane, erano piccole e in taluni casi in rovina. 

Francesco I


Claudia di Francia 


Solo verso la fine dell'estate del 1518, quando Maria aveva due anni e mezzo, la corte cominciò finalmente a riprendere le comuni abitudini, compresi i soliti periodici <<trasferimenti>> da un palazzo all'altro. Le faiglie reali vivevano vite da seminomadi, raramente trascorrevano più chhe poche settimane nella stessa località. Ma in tempi noormali gli spostamenti venivano programmati, secondo un ordine stabilito, ed era stato in ottemperanza a quest'ordine che la corte di Enrico aveva fatto ritorno. 
La ripresa della normalità fornì a Maria la prima occasione di sostenere un ruolo importante negli affari di stato. Poiché la rivalità tra Francia e Inghilterra non era affatto sopita, a Enrico venne subito in mente di usare la figlia come un'arma diplomatica. Soltanto una guerra o un gesto eclatante e di fraterna amicizia da parte sua avrebbe soddisfatto il nuovo sovrano francese, Francesco I, ansioso di dimostrare la forza propria e quella del suo paese. Egli aveva una figlia, Francesco un figlio: una promessa di matrimonio fra due rampolli reali era l'ovvia e migliore alternativa a una guerra. 

Inghilterra e Francia avrebbero scritto un trattato di pace universale, consacrato dall'unione del delfino con la principessa inglese, nozze che sarebbero state celebrate subito per procura e consumate quando il delfino avrebbe compiuto quattordici anni. Tra le clausole relative ai diritti dotali di Maria era stato compreso un accordo, di enorme significato, secondo cui, se Enrico fosse morto senza lasciare eredi maschi, gli sarebbe succeduta la fiiglia: il primo riconoscimento del suo diritto al trono. Per i diplomatici, comunque, questo punto era di secondario rilievo, in quanto vi erano ancora molte buone speranze che Enrico potesse avere un figlio maschio - Caterina era incinta  di nuovo e prossima al parto - e, in ogni caso, nessuna donna era mai stata incoronata regina d'Inghilterra se non come moglie del sovrano regnante. 

Gli ambasciatori della corte francese arrivarono in Ighilterra a metà settembre, per firmare il trattato e celebrare il matrimonio. Nell'attraversare Londra a cavallo, i francesi offrirono uno spettacolo di grande sfarzo, vestiti con farsetti di seta e circondati dalle guardie reali scozzesi di Francesco, nonché una scorta d'onore di quattrocento cavalieri locali, nobili e guardie reali inglesi. A ogni cerimonia e banchetto dei giorni successivi gli ospiti indossarono sempre abiti nuovi anche questi di seta, con grande meraviglia dei cortigiani di Enrico. Inoltre il loro apparentemente inesauribile guardaroba era all'altezza delle loro borse: tutti giocavano e scommettevano cifre enormi; nessun banchetto ufficiale era completo senza i giochi di carte e di dadi di cui il re era appassionato. Alla sontuosa festa offerta da Wolsey - ora nominato cardinale oltre che legato pontificio, e prossimo a diventare l'uomo più potente d'Inghilterra dopo Enrico - per festeggiare il trattato di pace uniiversale, al termine del pranzo furono posti dinnanzi ai commensali dadi e coppe d'oro piene di ducati affinché ciascuno potesse puntare a piacimento. 

Nell'attesa della cerimonia nunziale, le due parti giurarono gli accordi del trattato dinanzi all'altare maggiore della chiesa di San Paolo. Alle otto di mattina del 5 ottobre la fidanzata e i rappresentanti del fidanzato, accompagnati dalle relative scorte, si incontrarono in una sala del palazzo di Greenwich. Enrico era in piedi dinanzi al trono con al fianco Caterina, la sorella di Maria, Wolsey e un altro legato papale, il cardinale Campeggio. Durante il lungo discorso pronunciato dal vescovo di Durham per elogiare la reale unione - almeno il terzo del genere in cui i francesi erano stati sottoposti dall'arrivo - Maria, in braccio alla bambinaia, stette accanto alla madre: aveva un vestito in tessuto d'oro e sui riccioli biondi un cappello di velluto nero ornato di gioielli. Piuttosto piccola per la sua età e dall'aspetto delicato, la bella carnagione e gli occhi chiari del padre rendevano i suoi lineamenti nel complesso molto graziosi. Rimase sorridente e tranquilla per tutta l'interminabile orazione, confermando l'orgogliosa vanteria di Enrico, il quale voleva sostenere che <<la figlia non piangeva mai>>. Quando il vescovo ebbe terminato di parlare, gli ambasciatori chiesero a Enrico e a Caterina il consenso al matrimonio; quando l'ammiraglio francese Bonnivet acconsentì in nome del delfino e Wolsey infilò all'indice di Maria un anello con un enorme diamante, il dono nunziale alla sposa. L'ammiraglio, che rappresentava lo sposo assente, spostò quindi l'anello dall'indice all'anulare con un gesto solenne e subito dopo tutti passarono nella cappella, riccamente decorata, per assistere alla messa. 

La visita degli ambasciatori francesi in Inghilterra non era che la prima parte della procedura prevista per la stipulazione del trattato e del matrimonio; per completarla gli ambasciatori inglesi dovevano ora andare a Parigi, dove avrebbero controfirmato il trattato e rappresentato la principessa in una replica del matrimonio per procura. Gli inglesi arrivarono a Parigi ai primi di dicembre e pochi giorni dopo il re concesse loro un'udienza ufficiale, ricevendoli in una vasta sala dall'alto soffitto decorato con i gigli di Francia e dalle pareti abbellite da arazzi. Metà della sala era occupata da una pedana di notevole altezza, da cui si ergeva, sul fondo del salone, una seconda pedana di limitate dimensioni, ricoperta di velluto violetto a gigli bianchi e destinata a reggere il trono: una poltrona tappezzata in broccato d'oro con un baldacchino dello stesso tessuto. Francesco I, seduto sul trono, indossava uno sfavillante abito in tessuto d'argento, con ricami floreali e bordato di piume di airone; i suoi piedi poggiavano su un cuscino in tessuto d'oro. Sulla prima pedana, ai lati del trono, erano schierati in numero se file nobili ed ecclesiastici locali, il nunzio pontificio e gli ambasciatori  stranieri residenti alla corte francese. Alla sinistr del re, su una piattaforma leggermente più bassa della sua, a una certa distanza del trono e nascosta al pubblico da un tendaggio, erao sedute la regina Claudia, la madre del sovrano Luisa di Savoia e le dame di compagnia. 
Gli ambasciatori inglesi, che per quest'udienza avevano indossato i loro corsetti più ricchi, collari d'oro e cinture ingioiellate, furono preceduti nel salone da una scorta di duecento gentiluomini armati di asce, i quali salirono sulla prima piattaforma per disporsi ai lati del re. Francesco, fino a quel momento immobile in posa regale, rispose ai profondi inchini degli ospiiti con affettuosa cortesia e si alzò dal trono per andare a salutarli uno per uno. 

Qualche tempo dopo le due parti giurarono di rispettare il trattato nel corso di una messa solenne nella cattedrale di Notre-Dame e alla fine della messa Francesco e Claudia, in rappresentnza del delfino, sposarono la principessa Maria, rappresentata dal conte di Worcester. Durante le varie cerimonie Francesco fece del suo meglio per dimosgrarsi solenne, e nello stesso tempo affabile, ovvero per offrire una precisa immagine della sua regalità pur essendo gentile e amichevole verso gli ospiti. Li accompagnò quindi a cacce all'orso e al cervo, giostrò con loro e in loro onore, offì banchetti e spettacoli tali da uguagliare e anzi superare, così almeno egli sperava, i pomposi banchetti svoltisi in Inghilterra. Il cortile all'interno della Bastiglia era stato lasctricato con un pavimento di legno, nel cui centro era stato lasciato un ampio spazio per le tavole da prenzo e le tre gallerie per gli spettatori tutt'intorno. L'intera area era stata protetta con un tendone di tela blu, a formare come un padiglione, e lunghi drappi con i colori del re, ianco e bronzo, simulavano le pareti. Qui Francesco organizzò una splendida festa, seduto sotto il suo baldacchino d'oro e circondato in rigoroso ordine d'importanza, da familiari e cortigiani. Gli inglesi inviarono a Enrico dettagliati resoconti della serata, descrivendo il meraviglioso efetto degli alti lampadari, illuminati ciascuno da sedici torce, che rischiaravano il soffitto blu su cui erano stati dipinti in oro i pianeti e i segni dello zodiaco. I cibi erano stati serviti su piatti d'oro e d'argento e lacune delle vivande, tra lo stupore dei commensaali, erano apparse <<emettere fuoco e fiamme>>. Inoltre ogni portata era presentata con lo sfarzo riservato ai dignitari in vista, venendo preannunciate da squilli di tromba, con varie guardie e servitori al seguito dei trombettieri, cinque araldi avevano segnalato l'arrivo di otto siniscalchi della corte, che a loro volta avevano fatto ala all'ingresso del gran cerimoniere; gli addetti alla mensa, ventiquattro paggi d'onore e duecento servitori, avevano portato in tavola il pesce, la carne e la selvaggina. 

Alla fine del pasto si erano esibiite a turno sei compagnie di danzatori in maschera. Tra le maschere era poi aparso anche il sovrano, con un travestimento che evocava perfettamente la magia e la sacralità del suo caratttere regale: una lunga e aderente tunica di seta bianca, simile alla veste candida indossata da Cristo nei dipinti religiosi. La somiglianza con la familiare immagine del Salvatore era rafforzata dalla gioventù, dalla barba e dai capelli neri del sovrano, il suo volto e il suo portamento solenne avvevano destato in tutti una sensazione profonda e inquietante. Sulla tunica erano attaccati <<compassi e dischi>>, simboli occulti il cui significato era sfuggito agli astanti e aveva enfatizzato l'aria di mistero del personaggio. La comparsa di un gruppo di ragazze con corti <<bustini all'taliana><, incaricate di distribuire vino e dolciumi, aveva rotti di colpo l'incantesimo e la serata si era chiusa tra balli e bevute. Fortunatamente, avevano spiegatogli ambasciatori inglesi, il telo che fungeva da soffitto era stato incerato bene, sicché solo poche gocce della fitta pioggia caduta sul padiglione erano filtrate sulle teste degli ospiti. 

Tra i festeggiamenti a Londra e quelli a Parigi, Caterina ebbe l'ultima grande delusione. Si sperava e attendeva da tempo che desse alla luce un maschio. <<Che Dio le conceda di partorire un figlio>> aveva scritto Giustiniani a Venezia negli ultimi mesi di gravidamza della regina, <<di modo che in caso di necessità, avendo infine un erede, il re possa non essere ostacolato nnel desiderio d'intraprendere una qualsivoglia grande impresa.>> Un figlio maschio avrebbe garantito che la corona non sarebbe passata a Maria e, tramite lei, al futuro marito, il delfino di Francia; un figlio avrebbe rinsaldato la dinastia Tudor, rassicurato il re, soddisfatto i sudditi. 
All'ottavo mese, invece, Caterina partorì una bambina morta. Giustiniani la definì una <<seccante>> sventura: <<Mai questo intero regno aveva desiderato qualcosa come un principe>> Commentò: <<apparendo chiaro a chiunque che lo Stato sarebbe salvo se sua Maestà lasciasse un erede maschio, laddove, senza un principe, tutti temono il peggio>>. Caterina era affranta. Enrico temporaneamente depresso. Il matrimonio per procura di Maria era stato un rischio calcolato: il re aveva scommesso con se stesso che, assai prima che il delfino raggiungesse l'età stabilita per sposarsi, la sua pretesa al trono d'Inghilterra in virtù dei diritti della moglie sarebbe stata invalidata dalla nascita di uno o più figli maschi. Al momento, purtroppo, egli aveva perso la scommessa.

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domenica 18 novembre 2018

Giovanna d'Arco. Il maggio delle fate

Giovanna d'Arco. Il maggio delle fate


Giovanna d''Arco 

Jeanne che tutti nel suo paese chiamavano e avrebbero continuato a chiamare Jeanette, era nata verso il 1412 - si dice convenzionalmente il giorno dell'Epifnia di quell'anno: ma la cronologia è incerta - nel villaggio di Domrémy dipendente dalla castellanìa di Voucouleurs (una decina di chilometri più a nord) nella balìa di Chaumont. Si era nel ducato di Bar, sulla riva sinistra della Mosa: in un territorio grande quanto un fazzoletto circondato da terre borgognone ma fedele al delfino, quel giovane e incerto principe Carlo di Valois. 

Un'area di frontiera la chiameremmo noi. E la parola per quanto non ancora troppo diffusa (si preferiva renderne il concetto ricorrendo all'antico termine <<marca>>, d'origine carolingia), esisteva già. La si era adottata in Francia durante il primo quarto del Trecento, ma era d'origine iberica e richiamava l'idea della line lungo la quale si affrontano due mondi e due civiltà diverse in Spagna, appunto, la cristiana e la musulmana. Il territorio compreso tra la Lorena e i Vosgi odierni era stato a lungo diviso e conteso: in pien IX secolo, esso faceva parte integrante della <<Lotaringia>>, quindi della parte orientale delle due regioni nelle qualisi era scisso il dominio di Carlo magno.  Ma il regno dei <<franchi occidentali>>, che era poi diventato la Francia capetingia, aveva pian piano spostato verso est, ampliandoli, i suoi confini: e nel 1301 un trattato fra l'imperatore romano - germanico Alberto I d'Asburgo e il re di Francia Filippo IV il Bello, aveva fissato il corso della Mosa come linea di confine tra il regno dii Francia e il ducato di Lorena, terra d'Impero. Come sempre si faceva con le aree di frontiera, i sovrani francesi avevano in un primo tempo ridotto al minimo la pressione fiscale e garantito ogni sorta di privilegi alle comunità entrate da poco stabilmente nella loro compagine: ma al tempo stesso ne avevano seminato il territorio di fortezze e di guarnigioni di frontiera. 

Il villaggio di Domrémy era solcato da un ruscello a nord del quale esso dipendeva direttamente dal dominio regio, a sud di signori di Buorlémont-Joinville, vassalli del Barrois, feudo diretto dalla corona tenuto prima dal cardinale di Bar e quindi da suo nipote Renato d'Angiò, genero ed erede di Carlo II duca di Lorena. Quelli di Domrémy, stavano dalla parte del delfino; ma la gente del vicino paese di Maxey, era <<borgognona>> e quelli dall'altra parte della Mosa, fideles del duca di Lorena, approfittavano di tutte le occasioni per sbocconcellare un pò di quelle terre contese. Neufchàteau a una decina di chilomentri da Domrémy, apparteneva al re: il quale però l'aveva concessa in feudo al duca di Lorena, nonostante questi fosse - ma la pratica era corrente - vassallo dell'imperatore. Il fulcro lealista della regione era la fortezza di Vaucouleurs, fedele al delfino e circondata dai suoi nemici. Nonostante la guerra che la devastava, tutta l'area era importante e potenzialmente prospera: là s'incrociavano la via mercantile che collegava Lione a Treviri con quella che univa Basilea alle città rese ricche e famose fin dai tre secoli prima grazie alle <<fiere di Champagne>>. 

Oggi non si hanno dubbi sul fatto che il toponimo della località di Domremy-la-Pucelle nei Vosgi, piacevole tappa sulla strada fra Parigi e Basilea, vada scritto senza l'accento acuto sulla <<e>>: ma la consuetudine ha i suoi diritti. Esso dipende da Dominus Remigius, ed è attestato almeno all'XI secolo; ma è forse più antico, dal momento che la tradizione di dare in Francia ai luoghi nomi di santi qualificati dall'epiteto Dominus avviata verso la fine del VI secolo, venne abbandonata verso il X, allorché prevalse quello di Sanctus. 

Domrémy era quindi un insediamento dedicato a san Remigio, l'evangelizzatore dei franchi che secondo la tradizione avrebbe consacrato Clodoveo re cristiano della sua gente ingendolo in Reims, col crisma contenuto in un'ampolla mracolosamente recaata dalla colomba dello Spirito Santo. In realtà a Reims, nel Natale del 496, Clodoveo era stato non consacrato re, bensì battezzato. Nel capoluogo della Champagne si era cominciato a consacrare i re dal 5 ottobre dell'816, quando vi fu unto e incoronato Ludovico il Pio figlio di Carlomagno. 

Giovanna, una dei cinque figli dei bons laboureurs - contadini, ma piuttosto piccolissimi proprietari - Jacques, il cui cognome si è tardivamente fissato nella forma <<d'Arc>> e Isabelle Romée era una ragazza come tante altre, che si distingueva d'altronde per il suo vivo senso religioso e per l'ingenua ma profonda devozione. Aveva tre fratelli maggiori - Jeacques, Pierre e Jean - e una sorella, Catherine, che sarebbe morta forse di parto nel 1428. La devozione dei genitori e probabilmente il loro imoegno nel pellegrinaggiol sembrano confermati da questi quattro nomi, che rimandano ai principali grandi santuari meta dei pellegrinaggi del tempo: Santiago de Compostela, legato al culto delle reliquie di San Giacomo, Roma, Gerusalemme, il Monte Sinai. 

Forse più nota per i pellegrinaggi fatti da lei stessa o dai membri della sua famiglia era la madre Isabelle detta Romée. Un cognome, questo, o piutosto un soprannome? <<Romei>>, erano in effetti chiamati i pellegrini che volgevano i loro passi verso Roma, alla volta dell'apostolo Pietro e della reliquia che custodiva l'effigie di Cristo, <<la Veronica>>. 
Jeacques non era comunque, s'è detto, proprio un povero contadino, come invece una leggenda romantica ha cercato di far credere. Doveva essere piuttosto agiato ed era circondato da rispetto, nel 1623 era stato decano di Domrémy talvolta aveva rappresentato il suo villaggio presso i signori del luogo. 

La ragazza accudiva alle faccende domestiche, sapeva filare e cucire (si sarebbe vantata di saperlo fare molto bene) e nei giorni di festa frequentava la chiesa. La conooscevano come una brava e tranquilla bambina: per quanto qualche testimonianza raccolta nei due processi del 1431 e del 1456 - dai quali ci poviene quasi tutto quel che sappiamo di lei - riferisca di una sua speciale propensione per le cose della fede, d'una sua qualche inclinazione un pò più ingenuamente devota rispetto alle coetanee, a una sua più intensa partecipazione ai sacramenti; conosceva comunque le principali preghiere, insegnatele dalla madre. Può darsi che in qualche modo fosse in contatto con gurppi affini ai <<begardi>>, o almeno così dissero di lei durante il processo di riabilitazione: che fosse una <<beghina>> era il parere registrato nel 1429 dal mercante veneziano Antonio Morosini, che nel suo <<giornale>> raccoglieva le notizie che provenivano da Bruges. 

Quel tempo e quelle terre erano piene comunnque di mistici e di <<devoti>> che vivevano il rapporto con Cristo e con la fede di un modo nuovo, intima, che rifuggiva dalla mediazione delle istituzioni ecclesiastiche e si traduceva in un'infinità di pratiche rituali private spesso numerose e ossessive ma anche - talvolta - in una vita di comunità laiche all'interno delle quali la tensione spirituale si esternava in termini quotidiani. Può darsi che anche i predicatori appartenenti agli Ordini mendicanti francescano e domenicano, che senza dubbio passavano spesso per le strade molto battute tra la Mosa e il Reno, abbiano influito su Giovanna. Ma per quel che si sa, la sua vita devota - probabilmente un pò più intensa di quella dei suoi coetanei - s'inquadrava comunque bene nei consueti usi parrocchiali. Il centro attorno al quale essa ruotava era la messa domenicale, grande momento di compartecipazione e di scambio durante il quale, a partire dal IV Concilio Lateranense del 1215, era invalsa la consuetudine di comunicarsi: ma la pratica della comunione frequente non era incoraggiata dalla Chiesa, che temeva un'eccessiva familiarità con i sacramenti e suggeriva piuttosto l'adorazione dell'ostia consacrata. 

Anche i pellegrinaggi facevano probabilmente parte dell'esperienza della giovane figlia di Jacques e d'Isabelle: non quelli più importanti, verso le grandi mète lontane, bensì - secondo una tendenza che nel XV secolo si andava diffondendo in tutta la Cristianità occidentale - quelli diretti a sedi vicine che erano sovente piccole cappelle o modesti oratori. Così Notre-Dame di Beaumont, non lontano da Domrémy. 
Non siamo insomma dinanzi a una consuetudine ecclesiale e devozionale debole e incolta: le comunità rurali del tempo erano animate da un sentimento religioso concreto, profondo, incentrato su un robusto senso del sacro che si esprimeva nel culto della regalità del Cristo, della Vergine, della realtà e del sacramento. L'immagine del Cristo Re, la memoria del vescovo evangelizzatore san Remigio, lo stesso clima della frontiera fra due monarchie dal forte contenuto sociale - la romano-germanica, e la francese, entrambe devote alla memoria di <<san>> Carlomagno - facevano sì che la gente di Domrémy e dintorni restasse ben ferma nella fedeltà a colui che riteneva il suo re; e gli adulti deò villaggio senza dubbio erano fieri - lo dessero o meno a vedere - dei loro ragazzi, che tornavano spesso a casa laceri e insanguinati per aver affrontato a sassate e a bastonate nella battaliolae (così frequenti nel medioevo) i ragazzi dei villaggi vicini, fedeli al duca di Borgogna e partigiani pertanto di Enrico VI, re di Francia e d'Inghilterra. 

Giovanna era immersa nella cultura tradizionale della sua comunità familiare e insediativa: una cultura fatta di proverbi, di espressioni consuete, di conoscenze tecniche e materiali, di credenze e di leggende. Talvolta, specie durante le feste e in primavera, si univa alle compagne e alle coetanee ai piedi d'un grande albero, forse un faggio, che la tradizione folklorica collegava alle fate e attorno al quale si danzava e si contava; il primo giorno di maggio - il mese dell'inizio del tens clar e dell'amore; il mese caro alle cavalcate e alla poesia cortese, ma sacro anche alla Vergine Maria - si appendevano ghirlande di fiori ai suoi rami. Era un omaggio ad antiche dimenticate divinità (delle quali comunque senza dubbio non si conservava se non una memoria vaga e fiabesca) o alla Madonna? Si trattava comunque della Calenda maja alla quale ai primi del Duecento il provenzale Rambaldo di Vaqueiras aveva dedicato una canzone bellissima; era il Calendimaggio celebrato un pò dappertutto nell'Europa del tempo. 

A Domrémy, presso <<l'albero delle fate>> c'era una fonte celebre per le sue proprietà taumaturiche; gli ammaliati di <<febbre>> venivano a berne l'acqua. E non lontano dall'abitato sorgeva un bosco, evidentemente di querci (detto, appunto, <<Bois Chenu>>: che potrebbe anche significare però <<bosco vecchio>>), che forse manteneva in qualche modo il ricordo della sacralità attribuita alle querci nelle tradizioni celtica e germanica. Nei racconti di fate, l'albero, la fontana e il bosco sono abitualmente collegati fra loro: e sono protagonisti d'una vicenda i cui tratti abbastanza semplici si ripetono, con qualche variante, in molte tradizini sparse nel continente eurasiatico. La fata appare sotto l'albero e presso la fontana, talvolta travestita da vecchia; di solito dona a un brav'uomo povero e meritevole un'inattesa fortuna, oppure predice un avvenire felice a un'onesta e brava ragazza. 


San Michele Arcangelo


Era un'adolescente più o meno tredicenne - un'età tuttavia in cui, nel Quattrocento, non si era più troppo bambine - la Giovanna che, nell'estate del 1425, cominciò a udire (proprio, sembra, nel <<Bois Chenu>>) delle <<voci>>, da lei prontamente attribuite all'arcangelo Michele e alle sante Margherita d'Antiochia e Caterina d'Alessandria. 
Che proprio a metà 1425 fosse l'arcangelo Michele a rivelarsi e a parlare della liberazione della Francia degli inglesi, non è cosa priva di signifcato. L'arcangelo guerriero era ormai il vero e proprio protettore della Francia, da quando il suo collega san Giorgio aveva scelto con tanta decisione la parte inglese (o gli inglesi avevano scelto lui: il che era in fondo lo stesso). Dal 1418, nella Francia settentrionale sottomessa tutta o quasi al re di Francia e d'Inghilterra, l'isoletta fortificata di Saint-Michel-au-Péril-de-la-Mer, tra Normandia e Bretagna; resisteva indomita mantenednosi fedele al delfino. 

Mont-Saint-Michel, luogo arcano di leggende folkloristiche legate forse alle tradizioni celtiche precristiane e visitato da un'apparizione dell'arcangelo che ai primi dell'VIII secolo si era rivelato a sant'Auberto vescovo di Avranches, era divenuto caro alla corona di Francia fin da quando, nel 1204, re Filippo II Augusto se n'era impadronito strappandolo agli inglesi. Luigi IX il Santo vi era giunto pellegrino  nel 1256, Filippo IV nel 1307, l'infelice Carlo VI nel 1393. Erano stati i sovrani di Francia a finanziare la splendida costruzione gotica che ancor oggi incorona lo scoglio: il santuario detto a buona ragione <<la Merveille>>, costituito da re piani sovrapposti simbolo dei tre ordini nei quali si scandiva la società cristiana, quelli che pregavano, quelli che combattevano e quelli che con il loro lavoro assicuravano la vita e la prosperità di tutti. I tre <<stati>> simbolizzati - si dicceva in Francia - dai tre ptali del regale fiordaliso, Il povero Carlo VI nutriva per l'arcangelo una vera devozione: aveva dato il suo nome alla figlia che gli era nata nel 1395 e anche a una delle porte di Parigi. Il culto di Michele era poi divenuto quasi esclusivo nel <<re di Bourges>>, quando i parigini l'avevano abbandonato e si poteva pensare quindi che anche il loro patrono, sa Dionigi, gli avesse voltato le spalle. 

Mont-Saint-Michel, dunque, resisteva. Ed era il simbolo d'una Francia che non s'arrendeva, che non si piegava alla logica del trattato di Troyes e al ritorno al di qua della Manica del potere dei re che governavano dall'altra parte del mare. Nel maggio del 1425 gli inglesi, spazientiti, avevano scatenato contro l'ostinata piazzaforte un'offensiva combianta per terra e per mare. Del resto, Mont-Saint-Michel non era propriamente un'sola: una sottile lingua di terraferma la collegava al continente, ma per molti giorni all'anno essa era sommmersa dall'alta marea. Sfruttando queste speciali caratteristiche del terreno, i difensori avevano tenuto duro nonostante l'assedio fosse ccndotto da uno dei più abili e temibili capi miltiari del tempo, William de la Pole conte di Suffolk. 

La notizia della resistenza della piazzaforte consacrata all'arcangelo si sparse rapidamente in tutta la Francia. Era ricordato che la valle della Mosa era all'incrocio fra itinerario di viaggio e di commercio intensamente frequentati: la strada tra Lione e Treviri, quindi fra corso del Rodano e corso del Reno, v'incrociava - come si è detto - qualla che da Basilea (e quindi dalla pianura padana) conduceva all'area delle <<fiere di Champagne>>, almeno dal XII secolo uno dei centri nevralgici del commercio europeo.  Di merrcanti in grado di recare in Barrois e in Lorena notizie della Bretagna e della Normandia ce n'erano parecchi. A meno che la storia della valorosa difesa dei francesi sotto l'egida dell'arcangelo non fosse stata recata a Domrémy da qualche devoto pellegrino. Nei dintorni del villaggio c'era difatti il santuario di Saint-Michel, una delle tappe dell'itinerario del pellegrinaggio michelita che da Mont-Saint-Michel attraverso la Val di Susa dominata dalla Sagra di San Michele giungeva fino all'altro haut lieu della devozione all'arcangelo, Monte Sant'Angelo, sul promontorio del Gargano in Puglia. 

Giovanna conosceva bene il santuario michelita sito non lungi dalla sua dimora; e non si esagera in ipotesi supponendo che le gesta dei difensori di Mont-Saint-Michel fossero giunte anche alle sue orecchie. Inoltre, i tredici anni sono quelli della pubertà: quelli in cuui le bambine - al contatto con la paura e la sorpresa delle prime perdite sanguigne - sentono, anche se ancora non capiscono, di star diventando ormai donne. E' un momento magico e delicato, bellissimo e terribile: oggi sappiamo che le tempeste ormonali in quelle poche settimane scatenate nei giovanissimi corpi possono produrre turbe quasi sempre solo passeggere, ma non sempre di entità lieve. Non è mancato chi ha posto quei turbamenti in rapporto con le <<voci>>. Fu appunto a tredici anni, secondo la tradizione consacrata dai Vangeli apocrifi, che Maria ricevette la venuta dell'arcangelo Gabriele. Molti sono i contatti fra Maria e Giovanna. Anche nella vita della ragazza del Barrois c'è un arcangelo: ma non quello dell'Annunzio. Giovanna incontra il principe celeste della Guerra, della Morte e della Giustizia. 


Santa Caterina d'Alessandria


Santa Margherita d'Antiochia 



Ma c'erano altri aspetti inquietanti, nelle <<voci>>. La primaa volta che le sentì fu nell'estate del 1425, nel giardino di casa: era mezzogiorno, un momento arcano e terribile della giornata, l'ora dei <<demoni meridiani>>. Giovanna era a digiuno, una condizione che senza dubbio favorrisce li stati emotivi, se non alterati, della coscienza. La voce, che era buona perché veniva da destra, dalla parte della chiesa vicina, ed era accompagnata da una forte e chiara luminosità, era appunto quella - Giovanna se ne sarebbe sempre detta sicura - dell'arcangelo Michele. Le parlarono più tardi Margherita d'Antiochia e Caterina d'Alessandria. Lasciamo ad altri le facili ipotesi che tali <<allucinazioni>> dipendessero da una disposizione psico-fisica o dalle tempeste ormonali collegate con la pubertà. L'attribuziione delle <<voci>> non a in sé niente d'eccezionale: di Michele s'è già detto: Margherita e Caterina erano due tra le sante più venerate in quell'epoca, e non solo nella Francia orientale. 

Le <<vooci>> che parlavano a Giovanna insistevano sulla necessità di adempiere la volontà di Dio, che imponeva la liberazione del suolo di Francia dall'invasore. La ragazza - che talora giungeva anche a vedere gli arcani interlocutori - ascoltava con timore e con commozione: conosceva già la guerra con le sue crudeltà aveva avuto esperienza nel suo stesso paese delle violenze e delle razzie perpetrate dalle bande di mercenari a caccia di bottino. Nel luglio del 1425 alcuni avventurieri borgognoni avevano razziato il bestiame della regione. Nel 1428 gli anglo-borgognoni si erano impadroniti di tutte le piazze della Mosa fedeli al delfino e nel luglio avevano assediato a Vaoucouleurs mentre la gente di Dommrémy era stata costretta a rifugiarsi poco lontano, a Neufchateau, i terra lorenese. Pare che soltanto lì la ragazzina fosse in qualche modo constretta a un più impegntivo lavoro, non più domestico ma pastorale: forse si trattò di badare a un modesto gregge. 

Le <<voci>> andavano facendosi più insistenti e perentorie: pretendevano che la povera fanciulla si facesse profeta di Dio al pari di quelli del Vecchio Testamento: le ordinavano di recarsi <<in Francia>> - vale a dire nelle terre controllate dal delfino - e le ripetevano che essa aveva ricevuto dal Signore la missione di liberare la città d'Orléans dall'assedio nel quale gli inglesi la stringevano fin dall'ottobre del 1428. Orléans, chiave del medio corso della Loira, sorgeva a nord del grande fiume, sulla sua riva destra: era pertanto una sentinella avanzata del <<re di Bourges>> un territorio denominato dal re di Francia e d'Inghilterra. Essa stava a guardia del ponte di pietra che univa le due sponde. 
La gente di Domrémy dovette cominciare presto ad accorgersi della ragazzina che forse non parlava, ma delle <<voci>> della quale chiacchieravano fin troppo parenti, amici e vicini. 

La Francia e l'Europa  del tempo erano assediate dalle <<profetesse>>: alcune - come Caterina da Siena e Brigida di Svezia - grandi sante, oltre al limite dell'eresia. Le sante si collegano sovente ai movimenti mendicanti: già, fra Due e Trecento, Margherita da Cortona , Angela da Foligno, Chiara da Montefalco e Dauphine de Sabron apparivano in un modo o nell'altro connesse con lo spiritismo francescano e con Ubertino da Casale; Catarina da Siena era ina <<mantellata>>, una terziaria domenicaana. 
Non era affatto raro che queste donne che pregavano e che profetavano pretendessero di trattare con i pontefici e con i potenti della terra. Una giovane di Parma, Orsolina Venerii, non aveva esitato, durante il periodo del cosiddetto <<grande scisma d'Occidente>>, a rivolgersi al papa residente in Avignone, Clemente VII domandandogli di rinunziare al suo ufficio in favore del suo collega e concorrente romano in modo da consentire il ritorno della Chiesa all'unità. Nel territorio di Albi - la regione della Linguadoca ai primi del Duecento famosa per la folta presenza degli eretici - la vedova Constance de Rebastens, che si definiva <<sposa del Cristo>>, narrava il contenuto delle rivelazioni da lui ricevute al suo confessore, che le trascriveva diligentemente  in occitano e in latino. La sua vocazione le era apparsa chiara a partire dal 1384, quando aveva cominciato una serie di colloqui con na voce rivelatasi quella del Signore. La missione di Constance si presentava come dotata d'una precisa valenza politica e patriottica: essa era decismente schierata a favore del papa romano contro quello avignonese e, quanto alle faccende occitane, si opponeva a Giovanni II duca d'Armagnac che sosteneva gli inglesi parteggiando invece per Gaston Phoebus conte di Foix e partigiano di Carlo VI, cui attribuiva il compito di por fine allo scisma e guidava una nuova crociata. Constance incappò nel tribunale dell'Inquisizione: le si parlò di pubblicare le sue rivelazioni e la s'imprigionò. Pochi anni più tardi, nel 1396, Jeanne-Marie de Maillé - vedova di un signore della regione della Loira chhe viveva come reclusa presso un convento francescano di Tours - prese a profetare il futuro avvento d'un papa che avrebbe vestito il rude saio del poverello d'Assisi e non mancò di chiedere e ottenere udiena a re Carlo VI né di giungere un paoi d'anni dopo fino a Parigi, dove rimproverò la regina Isabella di Baviera per la vita disordinata per il lusso sfrenato, mentre il popolo soffriva la fame. Alla regina Isabella si rivolse anche, con un messaggio per il papa d'Avignone che veniva invitato una volta di più ai disinteressi, la <<reclusa>> Marie Robine detta anche <<Maria la Guascona>>, essa stessa oggetto di rivelazioni raccolte in un libro. Marie era giunta nel 1389 ad Avignone da uno sperduto villaggio della regione dell'Auch, ai piedi dei Pirenei; dopo una miracolosa guarigione ottenuta grazie a un pellegrinaggio, visse d'elemosine presso la cinta del cimitero di Saint-Michel dell'antica capitale pontificia. <<La Guascona>> sosteneva di ricevere le visioni, il contenuto delle quali era riservato al papa e al re Carlo VI; ma, nel 1398, scrisse anche Isabella di Baviera e fu da questa ricevuta. Marie era latrice di perentori messaggi divisi: il re doveva cambiare vita, lavorare alla composizione dello scisma papale, moralizzare la sua corte: altrimenti i sudditi si sarebbero ribellati, fiumi di sangue sarebbro stati versati, Parigi sarebbe stata distrutta. 

Queste <<profetesse>> ebbero sorti differenti Jeanne-Marie de Maillé fu infatti canonizzata, ma un'altra visionaria, Catherine Sauve, sarebbe stata bruciata a Neufchateau nel 1417; da parte loro altre ispirate, come Catherine de la Rochelle e santa Colette de Corbie, avrebbero più tardi incontrato entrambe la ragazza di Domrémy. 

Di Giovanna e delle sue visioni fu dinque costretto a occuparsi alla fine dello stesso capitano della piazza di Vaucouleurs, Robert de Baudricourt, che da pocco aveva a malapena respinto una parte offensiva borgognona e non aveva troppa voglia d'affrontare altri grattacapi. La ragazzina aveva già cercato di farsi ricevere una prima volta da lui nel maggio del 1428, quando si era recata a Vaoucouleurs col pretesto di venir a soggiornare qualche giorno presso uno zio che colà abitava. In quell'occasione, che fornì forse l'avvio alle chiacchiere del paese su Giovanna (che forse circolavano però già da tempo), il capitano si rifiutò di riceverla e di dar peso alle vociferazioni e alle polemiche: consigliò al familiare che accompagnava quella strana ragazzina dall'abito  scarlatto di riportarla indietro senza tante storie, curando con quattro schiaffi la malattia che la faceva parlar troppo di Dio e di liberazione... Ma in seguito, nel gennaio del 1429, Robert accettò di star a sentire la figlia di Jacques d'Arc, un uomo che egli conosceva e stimava. 

Il rude cappitano di Vaoucouleurs, anche se non si lasciò convincere, rimase per lo meno turbato dall'incontro e dal colloquio con l'ostinata ragazza che non faceva mai più mistero del compito assegnatole dal cielo: forse decise di sbarazzarsi d'una responsabilità che poteva diventar gravosa, forse pensò che non spettasse comunque a lui una decisione definitiva. Si affrettò a spedire a Nancy, ai suoi due signori feudali, quell'adolescente che parlava un pò troppo di <<voci>> e di visioni. 

Il principe angioino si trovò indietro dinanzi alla pospettiva d'occuparsi di quella faccenda di <<voci>> e di profezie: ma il capitano di Vaoucouleurs, frattanto, aveva forse avvertito il delfino e su sua autorizzazione deciso d'inviargli la giovane, che il parroco di Vaoucouleurs aveva provveduto di esorcizzare e che alcuni nobili dei dintorni d'aiutare e d'accompagnare. 
Dopo averle assegnato una piccola scorta, Robert lasciò che la ragazza indossasse abiti maschili più adatti al viaggio e partisse su un cavallo donatole dai suoi compaesani. Sapeva già cavalcare, quella sedicenne figlia di piccolissimi proprietari? Comunque imparò presto. Gli abiti maschili e l'addio ai congiunti e al fidanzato che la famiglia le aveva scelto furono il segno della rinunzia a una vita familiare e sessuale ordinaria, a un destino sereno di moglie e di madre. Seguiva un modello? Nella storia di santa Marrgherita c'è qualcosa di simile: la storia d'una donna che indossa abiti da uomo per poter vivere insieme con gente dell'altro sesso. 

Jacques d'Arc aveva sognato una volta che Giovanna abbandonava la casa paterna per seguire una torma di soldati. Era tutt'altro che strano, in quegli anni di violenza e di miseria, un tale destino: erano molte le piccole sciagurate che si davano a seguire una compagnia d'armati, spinte dal bisogno o perdute dietro a un miraggio d'amore e di gloria divenute ormai schiave della loro abiezione. Un sogno come quello di Jacques poteva aver un significato solo, e molto chiaro: ed egli soleva ripetere che, piuttostodi accettare una cosa del genere, avrebbe annagato la figlia con le sue stesse mani o avrebbe obbligsto uno dei fratelli a farlo in vece sua. In un certo senso, ora, le sue paure prendevano corpo: eppure l'incubo si avverva in modo ambiguo, che faceva  pensare in qualche modo lasciava ben sperare. Giovanna se ne andava di casa, sì, e in abiti da maschio, e accompagnata da gente d'arme: tutto sembrava onorevole, eppure una certa anbiguità aleggiava sugli eventi, sui colloqui col castellano di Vaucouleurs, sul viaggio di quella ragazzina che non avrebbe neppur dovuto saper stare in sella. Chi l'avrebbe difesa dagli imprevisti d'un viaggio invernale tra una scorta della quale non si sapeva quanto si potesse fidare e i rischi delle intemperie, delle belve della foresta, di fuorilegge, dei soldati, in un tempo di guerra civile endemica nel quale era così difficile distinguere tra un bandito e un uomo d'arme? E chi avrebbe tutelato lei e la sua famiglia dalle malelingue dei compaesani? Jacques non era un uomo qualunque, a Domrémy, aveva rivestito cariche di rappresentanza nella comunità, era un personaggio in vista. 

La piccola comitiva doveva percorrere quasi seicento chilometri, più della metà dei quali in territorio borgognone, per giungere al castello di Chinon, sulla sinistra della Loira, poche miglia a sud-est della confluenza  del grande fiume con la Vienne: là in quel monento, risiedeva Carlo di Valois. Il <<uo dolce delfino>>, lo chiamava Giovanna. 

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