giovedì 29 novembre 2018

Maria la sanguinaria. La Principessa III

Maria la sanguinaria

Parte I La principessa III

Prego ogni giorno che le loro pene siano alleviate e che presto siano mandati dove staranno meglio, senza malattie o avversità. 


Nell'inverno 1517, alla metà di gennaio, un forte gelo colpì Londra. Le strade erano coperte di neve indurita e scivolosa, le acque del Tamigi ghiacciate in profondità. Coloro che avevano da sbrigare affari a corte erano costretti ad andare a Londra a Westminster a piedi invece che in battello, e poiché il fiume non dava segni di disgelo i cittadini aprirono infine un camminamento nell'alto strato di ghiaccio. Il tempo non migliorò in febbraio. L'ambasciatore Giustiniani, che doveva recarsi a Greenwich per vedere il re, lamentò che era ancora impossibile utilizzare i battelli e che <<il gelo e le strade pericolose>> trasformarono qualsiasi viaggio in un rischio mortale. Il freddo intenso era sopraggiunto nel mezzo di un periodo di insolita siccità: nell'Inghilterra sudorientale non piovve dal settembre 1516 al maggio successivo. I lussureggianti pascoli verdi avevano assunto un orrendo colore verde marrone, i piccoli corsi d'acqua si erano prosciugati e gli agricoltori, per allevare il bestiame, dovevano spingere le greggi per tre o quattro miglia.

Le vittime del morbo - probabilmente un'influenza con complicazioni polmonari - <<sudavano a dismisura, emanavano cattivo odore, si arrossavano in faccia e sul corpo, avevano una continua sete e soffrivano di febbre alrissima e di mal di capo>>. Sulla testa e sul corpo comparivano poi eruuzioni cutanee e pustolose, da cui talora fuoriusciva siero e sangue, e quasi tutti i malati morivano prima ancora che si potesse ricorrere a una cura. Era in particolare la spietata repentinità del deccesso a terrorizzare la popolazione. La gente s'ammalava per strada. al lavoro, in chiesa; poi correva a casa, dove collassava a terra e moriva. Un medico che aveva studiato per diretta esperienza molti casi scrisse che la strana malattia colpiva <<alcuni mentre aprivano le fienstre, altri mentre giocavano con i bambini dinanzi alla porta d'ingresso; alcuni in un'ora, molti in due; il male distruggeva... chi dormiva e chi era sveglio, gli allegri e i preoccupati, i digiuni e i satolli, gli indaffarati e gli oziosi; e in una sola famiglia talvolta tre persone, talvolta cinque, talvolta di più, talvolta tutti>>. 

Quanti ne ebbero la possibilità, abbandonavano la città imediatamente, ma la maggioranza dovette rimanervi per seppellire i morti, far la guardia ai propri beni, guadagnarsi da vivere. E presto non vi fu alcun luogo in cui rifugiarsi, perché le campagne circostanti erano ormai infette quento la capitale. Verso la metà dell'estate i londinesi si erano ormai quasi assuefatti alla paura della morte, alle porte e alla e finestre sbarrate, ai presunti guaritori che vendevano toccasana preventivi e curativi per le strade, al panico che si diffondeva tra la folla quando un passante, lamentandosi e reggendosi la testa, incespicava nella corsa verso l'ineluttabile fine. L'ambasciatore francese a Londra scrisse in patria raccontando che uomini e donne <<magri come mosche fuggivano in fretta da vie e negozi>> non appena sentivano i sintomi della malattia; la vista di una persona barcollante era sufficiente a creare ovunque un rapido vuoto. In quell'estate morirono decine di migliaia di inglesi, e per i sopravvissui fu un ritorno alle spaventose morie delle pestilenze medievali. Molti giudicavano il sudore anglico, ribattezzato <<Visitazione del Signore>> e <<Segno di Dio>>, peggiore della peste, che almeno aveva un'incubazione più lenta e che lasciava in vita i colpiti per giorni e anche per settimane. 


Erasmo da Rotterdam


L'epidemia del 1517 non era la prima del genere. Nell'state del 1485 e poi di nuovo nel 1508 lo stesso misterioso morbo si era diffuso nell'Inghilterra mridionale, provocato, si era detto, dall'ira divina per la crudeltà del governo di Enrico VII. La sua ricomparsa sotto il regno del figlio determinò l'adozione di una serie di terapie per prevenrilo e curarlo: sembrava evidente che la micidiale infezione apparsa per la prima volta all'ascesa al trono della dinastia Tudor darebbe continuata insieme con essa. Uno dei medicinali più usati era un miscuglio di indivia, cicerbita, calendula, mercurio e belladonna; un altro si basava su <<tre cucchiaiate di acqua e di dracena e una mezza noce di corno di unicorno>> ((nei tesori inglesi venivano conservati con reverenza come corn di unicorno le aguzze punte dei pesci spada). Si raccontava che quest'ultima pozione avesse fatto superare senza problemi un'intera estate di pestilenza a Lord Darcy e trenta membri della sua famigliaa, sebbene fossero stati tutti esposti al contagio. 

Come cura più completa per il sudore anglico passò, cmunque, la triade di prescrizioni messe a punto dal sovrano stesso. Probabilmente a causa della sua paura fobica per tutti i malanni e in particolare per le epidemie, Enrico era diventato un provetto farmacista dilettante, sempre felice di regalare ritrovati per ogni sorta di male ad amici e parenti. La prima fase della cura inventata dal sovrano, la fase preventiva, consigliava un influsso di erbe (tra cui sambuco, erica e zenzero) in vino bianco: bevuto in piccole quantità ogni giorno, per nove giorni, manteneva <<sani per un anno intero, con l'aiuto di Dio>>. Se la malattia avessse colpito prima del non giorno di trattamento, si passava alla seconda fase, curativa, che imponeva una bevanda di acqua di scabiosa e acqua di betonica in parti uguali, addolcita da un quarto di melassa. 

Le medicine di Enrico non riuscirono, purtroppo, a tenere lontana l'epidemia dalla sua corte. Il segretario Ammonius morì il giorno prima della partenza per una casa di campagna situata in una zona non infetta. Wolsey invece scampò a stento alla morte poco dopo, ma un certo numero di cortigiani e servitori non fu alrettanto fortunato. Si ammalarono il vescovo di Winchester, così come l'ambasciatore Giustiiniani e il figlio, e quando cominciarono a soccombere l'uno dopo l'altro i paggi che dormivano nella sua camera da leto, il sovrano cedette al pensiero e decise di trasferire altrove la corte. Con Caterinna e la piccola Maria, tre dei gentiluomini più fidati e l'organista preferito, Dionysius Memo, Enrico raggiunse <<una lontana e insolita abitazione>> per attendersi la fine del pericolo. Tuttavia il morbo lo raggiunse anche lì e le voci di persone morte a pochissima distanza lo spinsero a spostarsi in continuazione, sempre inseguito dalle ondate di contagio. Nel frattempo anche i certigiani si spostavano tra i vari palazzi, nelle speranze di sottrarsi all'infezione, ma nella primavera del 1518, quando l'epidemia raffiorò più virulenta che mai e resa ancora più insidiosa dal morbillo e dal vaiolo che ora l'accompagnarono, i paggi del re ripresero a morire. 

Questi rudiimentali sistemi di quarantena avrebbero dovuto circoscrivere i focolai epidemici, ma non venne presa alcuna misura a proposito dei peggiori agenti infettivi: i cibi, l'acqua, la scarsa o inesistente igiene personale e domestica. All'inizio del Cinquecento Londra era una città di medie dimensioni che si stava rapidamente trasformando in una metropoli superaffollata, soffocata da luridi vicoli e casupole non meno luride. Pulci, pidocchi e cimici si annidavano ovunque: negli oggetti di legno, nei pavimenti, nei letti, negli armadi, insetti di ogni sorta infestavano i contenitori delle derrate e i panni di lana. 
Se le case della Londra tudoriana erano a dire poco principesche, le sue strade era depositi di sporcizia. Non selciate, piene di buche e di sochi, alternativamente fangose o polverose, tutte erano ricoperte di ogni specie di avanzi, rifiuti, lordure. La spazzatura somestica, così come i residui delle pentole da cucina e delle vasche dei tintori vi si mescolava con gli escrementi di cavalli, cani e uccelli. I vasi da notte delle case allinetate su vie e vicoli venivano vuotati ogni mattina o dinanzi agli usci o direttamente dalle finestre sul piano superiore; e, via via che crescevano, i cumuli di rifiuti erano radunati in montagnole ai crocicchi, di dove li si rimuoveva raramente per buttarli nel fiume o trasportarli ai margini delle grandi strade che condicevano fuori città. 

Il più noto censore dei primitivi costumi era Erasmo, il famoso umanista olandese. Nelle lettere agli amici gli sottolineava acccuratamente come le case dell'isola fossero costruite in modo da massimizzare i rifiuti e allo stesso tempo minimizzare l'esposizione all'aria fresca e alla luce del sole. Sarebbe stato necessario, aggiungeva, ripulire le strade dal fango e dall'urina e, soprattutto, abbandonare la deprecabile consuetudine di cospargere di paglia i pavimenti in terracotta delle case per nascondere le briciole di cibo, schizzi di birra e ossi; la paglia veniva cambiata quando l'odore diventava intollerabilmente acre, ma uno strato inferiore, incollato al paviento da anni di sputi, vomiti e <<bisogni di cani>> restava lì, a suo parere, per decenni. Erasmo condannava anche altre abitudini che di certo facilitavano contagi: il superaffollamento nelle taverne male arieggiate, il poco frequente cambio delle lenzuola, l'uso di un unico bicchiere da parte di molti, la mania di baciarsi a ogni incontro. Le vedute di Erasmo cuscitarono un certo consenso, ma anche un risentimento e sbeffeggiamenti. Aveva esagerato, riteneva qualcuno, nel sostenere che perfino le grate dei confessionali, l'acqua e l'olio benedetti dei battesimi e i grandi pellegrinaggi cntribuivano a diffondere le infezioni!

Molta gente collegava le malattie non alle insalubri condizioni di vita ma a fattori soprannaturali. Per ogni medico che curava i pazienti affetti dal sudore anglico aprendo loro le vene per un salasso o rinchiudendoli in una camera caldissima completamente avvolti in coperte (una terapia dall'esito abitualmente letale), erano almeno una dozzina i ciarlatani impegnati ad ammannire rimedi associati a pratiche superstiziose o occultistiche. 
Queste in realtà erano il risultato di una visione fondamentalmente provvidenziale non solo delle malattie ma ance del complesso delle vicende umane. La popolazione dell'età tudoriana accettava le devastazioni del sudore anglico così come accettava i danni delle inondazioni o delle morie in massa del bestiame perché li riteneva compresi in un vasto disegno incomprensibile e invisibile alle creature terrestri. L'autore del disegno era Dio, ma questa credenza era religiosa solo in senso lato: era più che altro una fede nella supremazia dell'ordine sul caos. Nessuno accoglieva di buon grado un'epidemia, eppure tutti traevano un qualchhe conforto dalla convinzione che il malanno era stato mandato da un Potere superiore per uno scopo preciso. 

Morivano le persone <<più giovani e più belle>>, <<gli uomini di mezza età col fisico sanguigno>>. Era più probabile, paradossalmente, che sopravvivessero i più deboli e i più poveri. I bambini, le donne in età feconda, gli uomini macilenti per la fatica e per la fame o erano risparmiati dall'epidemia o, riuscivano in genere a superare la fase critica e infine a guarire. I gentiluomini ricchi e maturi cadevano stecchiti a centinaia. 
Il fatto che il morbo mietesse il maggior numero di vittime tra i membri meglio nutriti, più danarosi e privilegiati della società offendeva la comune fiducia nell'ordine delle cose, prospettando la sconcertante possibilità che l'ordine avesse solo un tenue vantaggio sull'anarchia e che il futuro avrebbe potuto portare l'imprevisto oltre il prevedibile. Minacccia che colpiva diritto la più profonda fobia dell'epoca: il terrore che l'intero ordine sociale potesse frantumarsi. 

Fu in questo periodo di panico e di repentini cambiamenti di residenza che la principessina Mara trascorse i primi mesi di vita. All'inizio la piccola era stata affidata a una nobile balia, Kaetherien Pole, nuora della contessa di Salisbury, che fu poi sostituita da Lady Margareet Bryan, insignir dell'appellativo di <<Lady governante>> e incaricata di dirigere il piccolo gruppo di uomini e donne che costituivano il seguito personale di Maria: le quattro bambinaie (Margery Parker, Anne Bright, Ellen Hutton, Margery Cousine), il lavandaio Avys Woode, il cappellano e il segretario privato, sir Henry Rowte. La principessa aveva anche una sua corte, che era presieduta dalla contessa di Salisbury e che annovervava un ciambellano, un tesoriere, le donne  addette alla camera da letto e vari attendenti, tutti indistintamente abbigliati con i colori di Maria, il blu e il verde. Con l'arrivo dell'epidemia nel palazzo, comunque le formalità, di corte erano state dimenticate e il re si era affrettato a prendere con sé la famiglia e pochi intimi per allontanarsi il più possibile dal pericolo. Dovendo abbandonare le dimore londinesi - gli appartamenti della Torre, lo spazioso Bynard's Castle in Thames Street - e non potendo recarsi nella residenza preferita di Greenwich, sul Tamigi, un bell'edificio di mattoni rossi circondato da verdi giardini piieni di fiori, ma troppo vicino al cuore della città per garantire tranquillità nel dilagare dell'infezione, Enrico aveva trovato dapprima rifugio nel palazzo turrito di Richmond, nel Surrey; tuttavia poco dopo avrebbe saputo che un villaggio vicino era stato raggiunto dal morbo e nel giro di qualche ora sarebbe corso via per cercare zone di volra in volta ritenute più sicure. Dei rigurardi del magnifico castello medievale di Windsor egli provava una profonda avvrsione, lo trovava cupo e troppo simile a un luogo di clausura: a lui piacevano i parchi, le aperte distese della campagna e, possibilmente, la vicinanza del fiume. A Greenwich il sovrano poteva camminare fino al molo per ispezionare le navi e parlare con marinai e cannonieri; a Windsor, invece, si sentiva chiuso tra cortili lastricati e, se entrava nella cappella della Giarrettiera, pativa l'oppressione delle tombe e dei monumenti di cavalieri dell'ordine, di tanti cimeli militari dei Plantageneti suoi predecessori. Le altre residenze di campagna, più lontane, erano piccole e in taluni casi in rovina. 

Francesco I


Claudia di Francia 


Solo verso la fine dell'estate del 1518, quando Maria aveva due anni e mezzo, la corte cominciò finalmente a riprendere le comuni abitudini, compresi i soliti periodici <<trasferimenti>> da un palazzo all'altro. Le faiglie reali vivevano vite da seminomadi, raramente trascorrevano più chhe poche settimane nella stessa località. Ma in tempi noormali gli spostamenti venivano programmati, secondo un ordine stabilito, ed era stato in ottemperanza a quest'ordine che la corte di Enrico aveva fatto ritorno. 
La ripresa della normalità fornì a Maria la prima occasione di sostenere un ruolo importante negli affari di stato. Poiché la rivalità tra Francia e Inghilterra non era affatto sopita, a Enrico venne subito in mente di usare la figlia come un'arma diplomatica. Soltanto una guerra o un gesto eclatante e di fraterna amicizia da parte sua avrebbe soddisfatto il nuovo sovrano francese, Francesco I, ansioso di dimostrare la forza propria e quella del suo paese. Egli aveva una figlia, Francesco un figlio: una promessa di matrimonio fra due rampolli reali era l'ovvia e migliore alternativa a una guerra. 

Inghilterra e Francia avrebbero scritto un trattato di pace universale, consacrato dall'unione del delfino con la principessa inglese, nozze che sarebbero state celebrate subito per procura e consumate quando il delfino avrebbe compiuto quattordici anni. Tra le clausole relative ai diritti dotali di Maria era stato compreso un accordo, di enorme significato, secondo cui, se Enrico fosse morto senza lasciare eredi maschi, gli sarebbe succeduta la fiiglia: il primo riconoscimento del suo diritto al trono. Per i diplomatici, comunque, questo punto era di secondario rilievo, in quanto vi erano ancora molte buone speranze che Enrico potesse avere un figlio maschio - Caterina era incinta  di nuovo e prossima al parto - e, in ogni caso, nessuna donna era mai stata incoronata regina d'Inghilterra se non come moglie del sovrano regnante. 

Gli ambasciatori della corte francese arrivarono in Ighilterra a metà settembre, per firmare il trattato e celebrare il matrimonio. Nell'attraversare Londra a cavallo, i francesi offrirono uno spettacolo di grande sfarzo, vestiti con farsetti di seta e circondati dalle guardie reali scozzesi di Francesco, nonché una scorta d'onore di quattrocento cavalieri locali, nobili e guardie reali inglesi. A ogni cerimonia e banchetto dei giorni successivi gli ospiti indossarono sempre abiti nuovi anche questi di seta, con grande meraviglia dei cortigiani di Enrico. Inoltre il loro apparentemente inesauribile guardaroba era all'altezza delle loro borse: tutti giocavano e scommettevano cifre enormi; nessun banchetto ufficiale era completo senza i giochi di carte e di dadi di cui il re era appassionato. Alla sontuosa festa offerta da Wolsey - ora nominato cardinale oltre che legato pontificio, e prossimo a diventare l'uomo più potente d'Inghilterra dopo Enrico - per festeggiare il trattato di pace uniiversale, al termine del pranzo furono posti dinnanzi ai commensali dadi e coppe d'oro piene di ducati affinché ciascuno potesse puntare a piacimento. 

Nell'attesa della cerimonia nunziale, le due parti giurarono gli accordi del trattato dinanzi all'altare maggiore della chiesa di San Paolo. Alle otto di mattina del 5 ottobre la fidanzata e i rappresentanti del fidanzato, accompagnati dalle relative scorte, si incontrarono in una sala del palazzo di Greenwich. Enrico era in piedi dinanzi al trono con al fianco Caterina, la sorella di Maria, Wolsey e un altro legato papale, il cardinale Campeggio. Durante il lungo discorso pronunciato dal vescovo di Durham per elogiare la reale unione - almeno il terzo del genere in cui i francesi erano stati sottoposti dall'arrivo - Maria, in braccio alla bambinaia, stette accanto alla madre: aveva un vestito in tessuto d'oro e sui riccioli biondi un cappello di velluto nero ornato di gioielli. Piuttosto piccola per la sua età e dall'aspetto delicato, la bella carnagione e gli occhi chiari del padre rendevano i suoi lineamenti nel complesso molto graziosi. Rimase sorridente e tranquilla per tutta l'interminabile orazione, confermando l'orgogliosa vanteria di Enrico, il quale voleva sostenere che <<la figlia non piangeva mai>>. Quando il vescovo ebbe terminato di parlare, gli ambasciatori chiesero a Enrico e a Caterina il consenso al matrimonio; quando l'ammiraglio francese Bonnivet acconsentì in nome del delfino e Wolsey infilò all'indice di Maria un anello con un enorme diamante, il dono nunziale alla sposa. L'ammiraglio, che rappresentava lo sposo assente, spostò quindi l'anello dall'indice all'anulare con un gesto solenne e subito dopo tutti passarono nella cappella, riccamente decorata, per assistere alla messa. 

La visita degli ambasciatori francesi in Inghilterra non era che la prima parte della procedura prevista per la stipulazione del trattato e del matrimonio; per completarla gli ambasciatori inglesi dovevano ora andare a Parigi, dove avrebbero controfirmato il trattato e rappresentato la principessa in una replica del matrimonio per procura. Gli inglesi arrivarono a Parigi ai primi di dicembre e pochi giorni dopo il re concesse loro un'udienza ufficiale, ricevendoli in una vasta sala dall'alto soffitto decorato con i gigli di Francia e dalle pareti abbellite da arazzi. Metà della sala era occupata da una pedana di notevole altezza, da cui si ergeva, sul fondo del salone, una seconda pedana di limitate dimensioni, ricoperta di velluto violetto a gigli bianchi e destinata a reggere il trono: una poltrona tappezzata in broccato d'oro con un baldacchino dello stesso tessuto. Francesco I, seduto sul trono, indossava uno sfavillante abito in tessuto d'argento, con ricami floreali e bordato di piume di airone; i suoi piedi poggiavano su un cuscino in tessuto d'oro. Sulla prima pedana, ai lati del trono, erano schierati in numero se file nobili ed ecclesiastici locali, il nunzio pontificio e gli ambasciatori  stranieri residenti alla corte francese. Alla sinistr del re, su una piattaforma leggermente più bassa della sua, a una certa distanza del trono e nascosta al pubblico da un tendaggio, erao sedute la regina Claudia, la madre del sovrano Luisa di Savoia e le dame di compagnia. 
Gli ambasciatori inglesi, che per quest'udienza avevano indossato i loro corsetti più ricchi, collari d'oro e cinture ingioiellate, furono preceduti nel salone da una scorta di duecento gentiluomini armati di asce, i quali salirono sulla prima piattaforma per disporsi ai lati del re. Francesco, fino a quel momento immobile in posa regale, rispose ai profondi inchini degli ospiiti con affettuosa cortesia e si alzò dal trono per andare a salutarli uno per uno. 

Qualche tempo dopo le due parti giurarono di rispettare il trattato nel corso di una messa solenne nella cattedrale di Notre-Dame e alla fine della messa Francesco e Claudia, in rappresentnza del delfino, sposarono la principessa Maria, rappresentata dal conte di Worcester. Durante le varie cerimonie Francesco fece del suo meglio per dimosgrarsi solenne, e nello stesso tempo affabile, ovvero per offrire una precisa immagine della sua regalità pur essendo gentile e amichevole verso gli ospiti. Li accompagnò quindi a cacce all'orso e al cervo, giostrò con loro e in loro onore, offì banchetti e spettacoli tali da uguagliare e anzi superare, così almeno egli sperava, i pomposi banchetti svoltisi in Inghilterra. Il cortile all'interno della Bastiglia era stato lasctricato con un pavimento di legno, nel cui centro era stato lasciato un ampio spazio per le tavole da prenzo e le tre gallerie per gli spettatori tutt'intorno. L'intera area era stata protetta con un tendone di tela blu, a formare come un padiglione, e lunghi drappi con i colori del re, ianco e bronzo, simulavano le pareti. Qui Francesco organizzò una splendida festa, seduto sotto il suo baldacchino d'oro e circondato in rigoroso ordine d'importanza, da familiari e cortigiani. Gli inglesi inviarono a Enrico dettagliati resoconti della serata, descrivendo il meraviglioso efetto degli alti lampadari, illuminati ciascuno da sedici torce, che rischiaravano il soffitto blu su cui erano stati dipinti in oro i pianeti e i segni dello zodiaco. I cibi erano stati serviti su piatti d'oro e d'argento e lacune delle vivande, tra lo stupore dei commensaali, erano apparse <<emettere fuoco e fiamme>>. Inoltre ogni portata era presentata con lo sfarzo riservato ai dignitari in vista, venendo preannunciate da squilli di tromba, con varie guardie e servitori al seguito dei trombettieri, cinque araldi avevano segnalato l'arrivo di otto siniscalchi della corte, che a loro volta avevano fatto ala all'ingresso del gran cerimoniere; gli addetti alla mensa, ventiquattro paggi d'onore e duecento servitori, avevano portato in tavola il pesce, la carne e la selvaggina. 

Alla fine del pasto si erano esibiite a turno sei compagnie di danzatori in maschera. Tra le maschere era poi aparso anche il sovrano, con un travestimento che evocava perfettamente la magia e la sacralità del suo caratttere regale: una lunga e aderente tunica di seta bianca, simile alla veste candida indossata da Cristo nei dipinti religiosi. La somiglianza con la familiare immagine del Salvatore era rafforzata dalla gioventù, dalla barba e dai capelli neri del sovrano, il suo volto e il suo portamento solenne avvevano destato in tutti una sensazione profonda e inquietante. Sulla tunica erano attaccati <<compassi e dischi>>, simboli occulti il cui significato era sfuggito agli astanti e aveva enfatizzato l'aria di mistero del personaggio. La comparsa di un gruppo di ragazze con corti <<bustini all'taliana><, incaricate di distribuire vino e dolciumi, aveva rotti di colpo l'incantesimo e la serata si era chiusa tra balli e bevute. Fortunatamente, avevano spiegatogli ambasciatori inglesi, il telo che fungeva da soffitto era stato incerato bene, sicché solo poche gocce della fitta pioggia caduta sul padiglione erano filtrate sulle teste degli ospiti. 

Tra i festeggiamenti a Londra e quelli a Parigi, Caterina ebbe l'ultima grande delusione. Si sperava e attendeva da tempo che desse alla luce un maschio. <<Che Dio le conceda di partorire un figlio>> aveva scritto Giustiniani a Venezia negli ultimi mesi di gravidamza della regina, <<di modo che in caso di necessità, avendo infine un erede, il re possa non essere ostacolato nnel desiderio d'intraprendere una qualsivoglia grande impresa.>> Un figlio maschio avrebbe garantito che la corona non sarebbe passata a Maria e, tramite lei, al futuro marito, il delfino di Francia; un figlio avrebbe rinsaldato la dinastia Tudor, rassicurato il re, soddisfatto i sudditi. 
All'ottavo mese, invece, Caterina partorì una bambina morta. Giustiniani la definì una <<seccante>> sventura: <<Mai questo intero regno aveva desiderato qualcosa come un principe>> Commentò: <<apparendo chiaro a chiunque che lo Stato sarebbe salvo se sua Maestà lasciasse un erede maschio, laddove, senza un principe, tutti temono il peggio>>. Caterina era affranta. Enrico temporaneamente depresso. Il matrimonio per procura di Maria era stato un rischio calcolato: il re aveva scommesso con se stesso che, assai prima che il delfino raggiungesse l'età stabilita per sposarsi, la sua pretesa al trono d'Inghilterra in virtù dei diritti della moglie sarebbe stata invalidata dalla nascita di uno o più figli maschi. Al momento, purtroppo, egli aveva perso la scommessa.

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