sabato 20 gennaio 2018

Maria Antonietta cap. VIII

Maria Antonietta Cap VIII


Luigi XV




Luigi XV stava rapidamente invecchiando. Le sue condizioni di salute peggioravano e la sua andatura era diventata quella di un vegliardo. La vista gli si stava deteriorando, anche se le sue labbra si curvavano aancora all'insù in una smorfia cadaverica quando vedeva Madame Du Barry. Si ripeteva continuamente e la sua vacuità si stava rapidamente trasformando in demenza senile. <<Per numero d'anni il re non è proprio vecchio>>, scrisse un osservatore nel 1773, <<ma di fatto lo è, e molto, in conseguenza della vita che ha condotto.>> Luigi XV moriva di dissipatezza e i cortigiani, visto che stava morendo, lo abbandonavano a schiere. 

Costantemente in compagnia del sovrano restava Madame Du Barry, incombendogli sopra la spalla quando era seduto, camminandogli accanto nelle sue sempre più lente passeggiate, pretendendo di leggere le sue lettere e generalmente rivendicando la precedenza su ogni altro membro della corte, tranne i componenti della famiglia reale. 

La Du Barry continuava a ricevere costosi regali dal re e dagli ambasciatori stranieri. (Il re Gustavo di Svezia le fece dono di un collare e di un guinzaglio d'oro per la sua cagnetta Dorine, una Blenheim spaniel; i due oggetti erano completamente incrostati di brillanti e rubini.). Eppure era impossibile negare l'evidenza: prima che passasse molto tempo il protettore della contessa se ne sarebbe andato da questo mondo, e allora le sue rendite - di gran lunga più di un milione e mezzo di franchi l'anno - sarebbero cessate.


Madame Du Barry

Un anno prima, nel 1772, Luigi XV aveva tentato di far avere a Madame Du Barry il divorzio, in modo da poterla sposare. In quel momentole fortune dell'amante del re erano all'apice, la generosità del sovrano era infinita e i lussi di cui la contessa poteva godere nel suo boudoir tutto tappezzato di broccato bianco erano senza limiti. Ma il tentativo di ottenere per lei il divorzio non aveva avuto esito e i cortigiani, che per un pò di tempo avevano cominciato a prendere in considerazione la sbalorditiva possibilità che Jeanne Bécu divenisse la regina di Francia, erano poi giunti a rendersi conto che fra poco l'amante del re sarebbe rimasta assolutamente priva di influenza. 

Nel marzo del 1772 la contessa dette una festa per inaugurare il padiglione che il re aveva fatto costruire per lei nei giardini di Versailles. Luigi XV non aveva certo risparmiato spese, l'edificio era sontuoso <<al limite dell'indecenza>>. Per farlo bene ammirare a tutti, Madame Du Barry aveva organizzato una festa spettacolare, con un centinaio di cantanti e ballerini, artifizi scenici dei migliori teatri di Parigi e un finale quanto mai animato in cui un enorme uovo doveva spaccarsi in due mettendo bene in vista un cupido armato di arco e frecce. Tutte le personalità più eminenti della corte erano state invitate, e fra esse non poche dame. Quando però tutto fu pronto, il padiglione era praticamente vuoto.
Era un chiaro segno che la potenza di Madame Du Barry stava declinando, e che invece stava acquistando forza la fazione del delfino. Un altro segno, altrettanto chiaro, era il numero sempre crescente delle canzoni e degli epigrammi che si scrivevano sulla contessa per mettere in ridicolo le sue origini e fare oggetto di satira le sue pretese. Erano finiti i tempi d'oro della <<passeggiatrice>>, implicavano le canzoni, il suo sole era al tramonto e le sue attrattive avevano perso smalto, non incantavano più nessuno.

Via via che Luigi XV peggiorava, e si avvicinava il giorno in cui sarebbero ascesi al trono Luigi e Antonietta, il potere gravitava dalla loro parte. Le trame che miravano ad affidare lo sceettro al conte di Provenza invece che a Luigi si erano acquietate, perché il conte, nonostante le vantate prodezze della prima notte nunziale, non aveva ancora generato un erede e mostrava nei confronti della moglie un'indifferenza che sfiorava il disgusto. Il conte di Provenza era stato anche ammalato, per un'affezione della pelle delle mani e per <<umori nel sangue>>, mentre il delfino diventava ogni giorno più alto, più robusto e più sano. 

Adelaide aveva riposto nel conte di Artois le sue speranze, si era assunta la supervisione della sua istruzione e stava cercando - senza tenere in alcun conto le litigiose obiezioni di Madame Du Barry - di avere una parte preponderante nella scelta della sua cassa civile. Era stato combinato il suo fidanzamento. Il conte d'Artois, doveva sposare Maria Teresa di Savoia, soella di Maria Giuseppina, moglie del conte di Provenza, e sebbene si ritenesse che Maria Teresa fosse ancor meno attraente della paonazza e paffuta sorella, si sperava che la coppia risultasse feconda. 


Maria Antonietta


Antonietta, stava mentalmente maturando, e aveva imparato a vedere le cose in modo distaccato. L'accorta guida di Mercy, le gentili sollecitazioni dell'abate Vermond, i rimproveri dell'imperatrice avevano avuto il loro effetto. Antonietta aveva imparato a trovare la sua strada attraverso il caos degli intrighi e delle tediose regole dell'etichetta, e si stava dotando di una propria identità. <<Quando per la prima volta misi piede in questo paese>>, disse un giorno a Mercy, <<ero troppo giovane e sconsiderata. Credevo a tutto ciò che mi veniva detto, ma ora...>> Non c'er bisogno che finisse la frase. La differenza era chiara. Aveva cominciato a prendere nelle sue mani la propria educazione.

La mattina, al risveglio, diceva le preghiere, poi prendeva lezione di musica o faceva esercizi di danza, quindi si dedicava per circa un'ora a qualla che definiva una <<lettura ragionevole>>. Veniva poi la toilette in pubblico, e successivamente una visita del re, con il quale Antonietta assisteva alla messa. Dopo il pranzo si dedicava per un'ora e mezzo alla <<ragionevole lettura>>, quindi usciva per fare una passeggiata o partecipare a una partita di caccia. Concludevano la giornata le conversazioni col marito e con altri familiari. <<Non so se riuscirò a rispettare esattamente questo programma>>, disse Antonietta, informando della sua decisione l'ambasciatore Mercy, <<ma intendo fare del mio meglio>>.

Antonietta avrebbe dovuto regnare per Luigi, guidare i suoi atti e le sue decisioni e così, in realtà, governare la Francia. L'ambasciatore, nella primavera del 1773, parlava spesso della delfina come di una statista <<che un giorno governerà questo regno>>. Antonietta riferì a Maria Teresa in una certa occasione, <<ha capacità mentali e di carattere così grndi che non può esserci il minimo dubbio che possiamo contare sui loro effetti>>. 

Il delfino lasciava scorrere le giornate indossando vecchi abiti, a meno che i suoi domestici insistessero per fargli addottare un abbigliamento più dignitoso, scrutando i cortigiani con i suoi occhi miopi e facendo del suo meglio per imparare a danzare. Solo nel suo appartamento, con le porte chiuse a chiave per evitare il pericolo di intrusioni, provava con grande impaccio i passi delle complicate danze di corte, <<sudando a giccioloni>>, mentre un solitario violinista strimpellava il motivo. Esausto per lo sforzo, il delfino raggiungeva quindi i fratelli per partecipare al loro gioco privato che consisteva nel tormentare i domestici del nonno; i giovani nipoti di Luigi XV si mettevano infatti a scorrazzare per le stanze e i corridoi <<con grande allegria>>, mettendo in pericolo l'equilbrio dei valletti che entravano e uscivano dall'appartamento reale carichi di vassio e di panieri. Quando questo divertimento finiva, il delfino se ne andava a caccia, oppure raggiungeva un cantiere e, tutto contento, si metteva a lavorare accanto ai muratori. 


Luigi XVI


Luigi scopriva di continuo qualcosa che aveva bisogno di riparazioni, faceva chiamare degli operai perché le facessero e si metteva a lavorare in loro compagnia. <<Lavora egli stesso con gli operai, contribuendo allo spostamento dei materiali, delle travi, delle lastre di pietra, e dedica ore intere a questo faticoso esercizio. A volte torna da queste imprese più stanco dei lavoratori che sono obbligati a compierle per vivere.>> L'avidità e lo zelo con cui il futuro sovrano si impegnava nei più umili lavori manuali erano imbrazzanti. Sempre impacciato e rigido quando si trovava a palazzo, diventava rilassato e in pace con se stesso nel fango e nel sudiciume del luogo di lavoro, perduto nel piacere dell'esercizio fisico e nella soddisfazione della pura e semplice fatica. 

Era difficile immaginare un futuro sovrano in questo personaggio disadattato. <<Il delfino da prova di certe virtù selvatiche>>, scrisse la contessa de la Marche, <<ma è privo di spirito, privo di conoscenze, privo di educazione, privo perfino di gusto>>. Il timore che il delfino nutriva nei confronti delle donne giocava a favore di Antonietta. Essa lo colmava di gentilezze, egli desiderava intensamente compiacerla e ciò lo rendeva malleabile. Stranamente Antonietta, con il suo carattere delicato e alieno alla critica, con il suo calore e la sua comprensione, era, verso il marito, più una madre che una moglie. A volte lo sgridava fino a farlo piangere (anche se le lacrime del delfino, a volte, inducevano a piangere anche lei, per simpatia), e faceva in modo che egli sentisse la pungente acidità della sua lingua. Quando Luigi si azzuffava con i fratelli, la delfina spesso interveniva per porre fine agli scontri. Vittima delle fulminee battute del conte di Provenza e dei tormentosi commenti del conte d'Artoism Luigi stava perennemente sulla difensiva quando era in compagnia dei fratelli; e spesso, passava fisicamente all'attacco, prendendoli a calci o a pugni; a volte si vendicava di loro distruggendo gli oggetti di loro proprietà. 

Antonietta era ormai abbastanza matura per rendersi conto di quanto le insufficienze di suo marito lo avrebbero intralciato nell'assolvimento dei suoi doveri regali. Grazie, in parte agli ammaestrament e ai consigli ricevuti da Mercy, sapeva che su di lei, come regina, erano riposte per il futuro molte speranze e molte attese; e che anzi, quando sarebbe ascesa al trono, si sarebbe trovata ancor più sotto l'assedio degli intriganti e degli ambiziosi, ancor più bersaglio delle fazioni, dei pettegolezzi e dei maneggioni indiscreti. Il suo senso del dovere la spingeva a inchinarsi dinanzi all'inevitabile; ma in lei stava acquistando influenza un altro istinto. 

Antonietta sentiva l'avvicinarsi di un fardello oneroso, anzi schiacciante, e si tirava indietro, forse perché sapeva che non sarebbe mai stata abbastanza forte per affrontare aapertamente quella prospettiva, forse perché era cresciuta all'ombra di una madre incredibilmente oberata dalle attività di governo, anche le più estenutanti, una madre la cui intera vita era stata un inno al dovere; e in parte, forse, per via del lato vacuo e frivolo del suo carattere, che la induceva a chiudere gli occhi dinanzi al dovere e a godersi la via giorno per giorno, senza pensare al futuro. 

Il re invecchiava rapidamente, e prima che morisse era necessario che il suo erede, con la sua consorte, si presentasse al popolo di Parigi nella tradizionale cerimonia della la Joyeuse Entrée. 
La mattina dell'8 giugno 1773 la gran folla che si era riversata nelle strette strade della capitale rendeva difficile il lavoro degli spazzini. La fanghiglia nerastra e solforosa che si era formata sui selciati e nelle cunette, puzzolente di rifiuti e di immondizie in decomposizione, doveva essere rimossa, caricata su carri e trasportata in campagna, ove non avrebbe potuto offendere l'odorato del futuro re e della futura regina. Ma i crocchi di spettatori intralciavano il lavoro, scostando a forza ggli spazzini con i loro carri e le loro pale, portando nuovo fango incrostato alle scarpe e insudiciando anche le grandi arterie e le stradine già ripulite, ove si accalcavano per manifestare il loro entusiasmo all'imminente passaggio del delfino e della delfina, il cui corteo avrebbe cominciato a sfilare partendo dalla Porte de la Conférence. Molti spettatori, anzi, si spinsero oltre questa porta in direzione di Versailles, sperando di incontrarsi con gli eredi al trono e il loro seguito mentre dal palazzo si dirigevano verso la città. 

Non c'erano mercati, ma era autorizzato il passaggio per le strade di greggi di pecore e mandrie di buoi e vacche, non si vendevano partite di grano e altri cereali; perfino i venditori ambulanti erano stati allontanati a forza dall'itinerario che il corteo doveva percorrere. E tuttavia facevano buoni affari le donne che vendevano, a due soldi la tazza, caffè e latte fumante, versandolo dalle loro brocche di stagno. Le suore dell'ospedale dei trovatelli portarono nell'interno la dozzina di neonati abbandonati davanti al portale la notte precedente, e altri ne presero in consegna dalla gendarmeria; non stava bene che si udisse il pianto dei bambini durante le celebrazioni di quel giorno, anche quello flebile dei bambini appena nati. Per lo stesso motivo furono cacciati via o rinchiusi in carcere le migliaia di mendicanti che costituivano uno degli spettacoli più brutti di Parigi: non si poteva tollerare che i reali fossero rattristati dalla vista delle loro membra piagate e deformi. 

Quella che faceva ressa lungo l'itinerario del corteo era una folla rumorosa: i parigini erano notoriamente loquaci e abituati a urlare a pieni polmoni. Ed era anche una folla eterogenea: borghesi benestanti con indosso i loro abiti migliori, panciotti di velluto e camicie con polsini merlettati; mercanti con vestiti di taglio e fattura molto semplici, in genere grandi giacche e brache attillate; qua e là, un gentiluomo con le scarpe a fibbia, calze di seta e parrucca adorna di nastrini, che si trascinava dietro la spada penzolante. C'erano viani e droghieri, conciatori di pelli e dentisti, banchieri e avvocati, molto più numerosi erano tuttavia i lavoratori saltuari, apprendisti lasciati liberi dai maestri artigiani per la giornata, portatori d''acqua e facchini, barcaioli e contadini dei villaggi più vicini alla capitale, che avevano camminato tutta la notte per riuscire a vedere lo spattacolo della Joyeuse Entrée. 

Parigi nascondeva una moltitudine di peccati e delitti; lungo tutto il perimetro meridionale della città si viveva in costante apprensione perché era nella vicina Bicetre che venivano concentrati i detenuti provenienti da molte città del nord della Francia, in attesa della deportazione oltremare. Da Bicetre gli ergastolani venivano trasportati a Brest, Rochefort e Tolone, ove erano i porti d'imbarco e facevano perdere le loro tracce nei vicoli bui e tortuosi della capitale, dai quali partivano poi per nuove imprese criminose, terrorizzando i cittadini onesti. 

Dappertutto c'erano informatori della gendarmeria, che per individuare gli evasi tenevano d'occhio i ponti sulla Senna, si mescolavano con gli avventori delle taverne e con la gente che faceva la fila ai posti di blocco daziari, origliavano per intercettare conversazioni sospette che potevano condurli alle loro prede. Quel giorno gli informatori erano particolarmente vigili perché i borsaioli e i tagliaborse amavano la folla, e le rapine, com'era inevitabile, aumentavano di numero nei giorni di festa. 

Dinanzi alla Porte de la Conférence si fermarono dieci carri, occupati da soldati e da funzionari con i loro seguiti; il maggiore e più vistoso dei carri aveva a bordo l'attempato maresciallo de Brissac, governatore di Parigi, il comandante della gendarmeria, Michodière, e il responsabile del mantenimento dell'ordine pubblico, Sartine. Si formarono squadre di guardie cittadine a cavallo e a piedi, pronte a far da scorta al delfino e alla delfina. 

Alle undici e mezzo venne avvistata la prima delle carrozze del corteo e fu dato un segnale ai trombettieri, che fecero squillare i loro strumenti. Quasi nello stesso istante il cannone degli Invalidi sparò una salva di saluto seguita da quelle dell'Hotel de Ville e della Bastiglia. Nel sereno cielo primaverile si levòuna nube di spesso fumo nero, che prese a estendersi sulla città via via che le lontane salve si ripetevano. La folla cominciò ad applaudire e molti spettatori si precipitarono in avanti, ma la gendarmeria intervenne e li ricacciò indietro. Infine le quattro carrozze sulle quali erano il delfino e la delfina col loro seguito passarono rumorosamente sotto la porta e si fermarono, il maresciallo de Brissac aavanzò di qualche passo, si genuflesse dinanzi ai futuri sovrani e pronunciò le rituali frasi di saluto e di omaggio, porgendo al delfino le chiavi della città. Un breve discorso venne pronunciato quindi dal comandante della gendarmeria, ma i clamori della folla impedirono anche ai più vicini di udirlo. Gli spettatori aapplaudivano, fischiavano, cantavano canzoni scritte appositamente per la Joyeuse Entrée, che circolavano tra la folla stampate su foglietti di carta. 

Per Antonietta il rumore assordante della folla era eccitante e gratificante al tempo stesso. Praticamente segregata per tre lunghi anni a Versailles come in una tomba, aveva avuto ben poche occasioni per trovarsi faccia a faccia con il popolo francese. Ma adesso questo popolo era lì dinanzi a lei, migliaia e migliaia di persone ricche e povere mescolate insieme, che tumultuavano per vedere più da vicino lei e suo marito e si avvicinavano il più possibile alla loro carrozza, con i volti segnati dal vaiolo, aperti il larghi sorrisi. Affascinata, guardò sorridendo quella gente festante mentre il corteo di carrozze percorreva il lungosenna aprendosi la strada verso Notre Dame, dopo aver sostato sul lungosenna Conti per ascoltare un altro discorso di omaggio del prefetto della Zecca. Nella cattedrale di Notre Damecelebrò la messa l'arcivescovo di Parigi, dopo di che i dignitari tornarono alle loro vetture e percorsero il breve tratto verso il Collège intitolato a Louis le Grand, ove il rettore dell'Università pronunciò un altro discorso. 

Il clamore, le incessanti grida di <<Vive le dauphin!>> e <<Vive la dauphine!>>, i fiori che coprivanno in grande quantità le strade percorse dal corte, i pittoreschi edifici medievali nella parte più antica della città, perfino gli odori pungenti che aleggiavano nell'aria nelle vicinanze del fiume, tutto concorreva a creare un quadro di delizie. Dopo tre anni Antonietta si incontrava finalmente con coloro che presto sarebbero stati i suoi sudditi e vedeva la famosa capitale della Francia. 

Il delfino e la delfina attrassero la folla più numerosa che Parigi avesse mai visto dal tempo dell'arrivo di un celebre guaritore, la cui forma aveva indotto trentamila persone ad affollare le strade della capitale. In quella occasione la gente aveva gremito la Rue de Ciseaux ed era traboccata nelle strade circostanti; la scena era stata resa ancora più frenetica dalle grucce dei tanti invalidi che erano affluiti in città nella speranza che l'uomo potesse risanarli con le sue preghiere e col tocco delle sue mani, e dai cani che accompagnavano molti ciechi. 

La gente acclamava e chiedeva di vedere Luigi e Antonietta dai tetti e dalle finestre degli ultimi piaani delle case, e anche dai giardini gremiti delle Tuileries, ove il delfino e la delfina erano andati a pranzare. Dopo il pranzo in pubblico, i due giovani sposi uscirono nei giardini, ove le acclamazioni erano assordanti e la folla cominciò ad accalcarsi intorno a loro da tutti i lati, così da non lasciarli più muovere. <<Siamo rimasti per tre quarti d'ora senza riuscire né ad andare avanti né ad indietreggiare>>, scrisse Antonietta. Le guardie, abituate a colpire la gente con la frusta o col piatto della spada, eseguirono l'ordine del delfino di non reagire, lasciando che gli spettatori si stringessero intorno a lui. Questa inaudita mitezza <<creò un'ottima impressione>> e fortunatamente non causò feriti. (Raramente simili scene di folla erano incruente. Tre anni prima, quando tutta Parigi si era precipitata nella Rue Royale enelle vicinanze per assistere allo spettacolo di fuochi d'artificio organizzato per festeggiare il matrimonio del delfino, a un certo puunto molti spettatori, persa la testa, si erano messi a correre all'impazzata e il panico si era impadronito della folla: più di cento persone erano morte soffocate o calpestate). 

Focosi come amanti nelle loro grida appassionate, i parigini continuarono a salutare Antonietta a voce altissima fino a diventare rauchi; sui loro volti lacrime e sorrisi si mescolavano. Erano entusiasti del delfino, che a loro appariva ben piantato e robusto, un vero uomo, e che quel giorno superò se stesso rispodendo con dignità ai discorsi e alle acclamazioni. Ancora più entusiasti erano i parigini della moglie austriaca di Luigi, la cui delicatezza da bambola, l'incanevole colorito e la grazia vibrante li avevano conquistati. 

Dieci mesi dopo, nell'aprile del 1774, la giovane coppia si chiuse nell'appartamento di Antonietta e pregò perché la vita del veccio re fosse risparmiata. Luigi XV era molto malato, era stato sottoposto a due salassi dai cinque chirughi che lo assistevano e purgato tre volte per ordine dei suoi tre farmacisti. Adelaide, Vittoria e Sofia si alternavano al suo capezzale durante la giornata, Madame Du Barry lo vegliava di notte. In privato, uno dei medici che avevano diagnosticato una <<febbre catarrale>> confidò a un gentiluomo che a suo parere il re non sarebbe sopravvissuto. A Parigi, il comandante della gendarmeria cominciò a organizzare il controllo delle strade della città per impedire l'esplosione di viiolenze che, ne era sicuro, ci sarebbe stata quando la notizia della morte del sovrano si sarebbe diffusa per la capitale. 

Il delfino attendeva con angoscia i bollettini medici che venivano dalla camera dell'infermo, ben consapevole del sottile cambiamento che era intervenuto nel modo in cui i gentiluomini di corte e i domestici si rivolgevano a lui. Se il re fosse stato sottoposto a un terzo salasso, sarebbe stato chiamto l'arcivescovo di Parigi perché gli somministrasse l'estrema unzione. Il terzo salasso sarebbe stato una sentenza di morte. Pallido e agitato, con i nervi a pezzi, il delfino si inginocchiò e pregò che, ancora per un pò di tempo, gli fosse risparmiata la spaventosa responsabilità di regnare sulla Francia. 

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