lunedì 9 ottobre 2017

Giovanna d'Arco La Guerra dei Cent'anni

 La guerra dei Cent'Anni



L'avventura di Giovanna si consuma rapidamente, nei due anni compresi fra il e il  . Nata con ogni probabilità attorno al 1412, la Pulzella sale sul rogo a Rouen nel 1431, a meno di vent'anni. La sua brevissima vita si esaurisce tutta all'unterno di una delle fasi conclusive di quel lungo periodo di guerre e di disordini che ha interessato direttamente Francia e Inghilterra ma anche indirettamente (e in modo diverso) ha toccato anche le penisole iberica e italica. Un periodo al quale siamo orai abituati ad attribuire il nome di <<guerra dei Cent'anni>>, per quanto a dire il vero i suoi limiti cronologici siano un pò più ampi: 116 anni, dal 1337 al 1453.

Si tratta della <<crisi del Trecento>>, perpetuatasi in relatà anche nel secolo succesivo e, secondo alcuni, giunta a saldarsi attraverso ulteriori fasi e articolazioni alle due altre crisi che hanno contrassegnato l'Eurpa moderna: quella religiosa ed economica del cinquiecento, caratterizzata dala Riforma e dalla <<rivuluizione dei prezzi>>, e quella globale del Seicento, culminata nella peste del 1630 ed esauritasi solo verso la metà del secolo, con la fine d'un altro lungo conflitto europeo, la <<guerra dei Trent'anni>>.

Sin dai prmi del XIV secolo, si erano cominciati ad avere inverni più lunghi e rigidi e stagioni più piovose che incisero negativamente sui raccolti provocando carestie e di conseguenza debiliazioni nelle già provate strutture fisiche specie degli appartenenti ai ceti meno abbaienti, da generazioni abituati a un'alimentazione non solo scarsa, ma siprattutto a base di carboidrati, povera quindi tanto di grassi quanti di vitamine. Coseguenze di tutto ciò furono una più accentuata mortalità infantile, un generalizzato flettersi della <<speranza di vita>> e l'insorgere della caratteristica sequenza di carestie e di epidemie: quete ultime ebbero buon gioco nell'abbattersi su una popolazione fisiologicamente indebolita dalla scarsa e cattiva alimentazione. Dopo le <<febbri>> che reiterate influirono nel secondo decennio del secolo, accompagnate da un clima freddo e umido, la peste che dilagò per l'Europa fa 1347 e 1350 e infine - sia pur a irregolari intervalli - a partire dal 1380, si associò alla fame e alla guerra nel colpire pesantemente la popolazione europea e determinarne una netta regressione demografica. Era davvero il tempo dei Cavalieri dell'Apocalisse. 

Caratteristico dell'epoca, accanto al contrarsi delle popolazioni urbane - entro le cinte murarie cittadine, fino a tutto il Duecento piene come uova, si andarono allargando spazi tenuti a giardini, orti e perfino pascoli - , fu il fenomeno dei cosiddetti <<villaggi abbandonati>>, veri e propri insediamenti che la pressione demografica dei decenni precedenti aveva obbligato a impiantarsi in territori non sempre favorevoli (aree di alta collina o di fondovalle minacciate dalle paludi) ma che, appena la falce della morte ebbe diradtao gli abitanti, furono i primi a venire abbandonati. Il fenomeno, pesante in Franca e in Germania, lo fu molto meno tuttavia in Inghilterra.

Il momento più drammatico della <<crisi del Trecento>> fu la Peste Nera del 1347-1350. che però era stata originata e poi accompagnata e seguita da un complesso di concause che interagirono: climatiche (un generale raffreddamento dell'intero emisfero boreale e quindi un susseguirsi di cattive annate agricole, specie a partire, come s'è detto, dal secondo decennio del secolo), demografiche, socioeconomiche (il malesseere espresso specialmente dalle rivolte cittadine e contadine degli anni  Quaranta - Ottanta), politico-istituzionali, religiose (le eresie, lo scisma del 1378-1417).



La <<guerra dei Cent'Anni>>, fra 1337 e 1338, comportò come conseguenza indiretta ma quasi immediata il crack finanziaro delle grandi banche fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaioli e di altri che avevano investito capitoli ingenti tanto in Francia quanto in Inghilterra. La causa immediata del conflitto fu il vuoto dinastico creatosi con la morte senza eredi maschi, il 1° febbraio 1328, del trentatreenne Carlo IV, ultimo re di Francia diretto discendente della dinastia capetingia. Egli si era sposato tre volte: la terza moglie, Giovanna d'Eveux, era allora incinta e partorì poco dopo una bambina.

L'assemblea dei baroni del regno decise pertanto di offrire la corona a un cugino germano del defunto re, Filippo, figlio di quel Carlo di Valois fratello di Filippo VI il Bello che aveva più volte tentato con poca fortuna la sorte, come candidato alla signoria di Firenze e addirittura alla corona imperiale. In tal modo Filippo di Valois divenne Filippo VI re di Francia

Nel 1066 il trono dell'ormai faticosamente unificata monarchia anglo-sassone era stato conquistato con l'appoggio pontificio da Guglielmo duca di Normandia, che era venuto così a trovarsi in una delicata per quanto all'epoca non inconsueta situazione: come re d'Inghilterra, in condizione paritaria con il sovrano di Francia, ma come duca di Normandia, feudo francese, era vassallo. La questione si era ulteriormente complicata con l'insediamento del 1154 sul trono d'Ingliterra di una nuova dinastia, quella dei Plantageneti duchi d'Angiò: il nuovo re Enrico II sposò Eleonora duchessa d'Acquitania, che era stata ripudiata da Luigi VII re di Francia, e in tal modo divenne a vario titolo signore di gran parte del territorio francese. Tra la fine del XII secolo e i primi del XIII, sotto il regno di Filippo II Agusto, la compagine francese si andò pian piano ricostituendo grazie a un'articolata politica dei trattati, di acquisizioni matrimoniali, di sistemazioni feudali, di colpi di mano, di vittorie militari come quella di Bouvines nel 1214. Grazie ai re francesi del Duecento, soprattutto a Luigi IX il Santo, l'influenza e la presenza politica inglesi furono ulteriormente ridotte. Nel 1329, allorché Edoardo III d'Inghilterra  - dopo aver protestato contro la scelta dell'aristocrazia francese che lo escludeva dal trono di Francia - si decise a rendere omaggio a Filippo VI per i suoi processi feudali al di qua della Manica, essi erano ridotti all'area sudoccidentale dell'antica Acquitania - Guascogna (cioè il ducato di Guienna tra la Gironda e i Pirenei) e al modesto territorio costiero del Ponthieu incuneato fra Normandia e Artois, a sud del canale della Manica.

Un'area d'attrito molto importante era quella fiamminga, caratterizzata da ricche e operose città in stretto rapporto con l'Inghilterra dalla quale le manifatture tessili di Fiandra importarono la materia prima, la lana. In seguito a un rinnovato tentativo dei comuni fiamminghi di liberarsi dalla seconda tutela del re di Francia, Filippo VI aveva ordinato e guidato una dura repressione: per tutta risposta i capi della ribellione di Fiandra avevano incoraggiato il re d'Inghilterra a reclamare i suoi diritti al trono francese troppo presto lasciati cadere. Così mentre Filippo nel 1338 dichiarava Edoardo decaduto in quanto vassallo infedele dai suoi feudi francesi, questi a sua volta rivendicava il trono francese con l'appoggio dei comuni fiamminghi che lo riconoscevano loro sovrano. 

Edoardo III aveva adottato come sua insegna una croce rossa su fondo d'argento. Si trattava di un simbolo che aveva già una lunga vita: alla terza crociata fra 1189 e 1192, aveva distinto i guerrieri - pellegrini francesi, e nel Duecento era stato usato soprattutto in Italia dalle milizie guelfe incoraggiate da inquisitori e predicatori popolari. Alla terza crociata gli inglesi si erano fregiati di una croce bianca, mentre la simbolica della lotta politica nella penisola italica del Duecento conobbe una croce rossa <<guelfa>> contrapposta all croce bianca <<ghibellina>>.

La croce rossa in campo d'argento era diventata per eccellenza il simbolo della <<guerra santa>> (fin dalla fine dell'Xi secolo una croce rossa cucita sugli abiti era il segno dei pellegrini armati diretti a Geusalemme): e per questo la si era sempre più spesso attribuita come arme araldica al più celebre santo guerriero dell' Occidente, san Giorgio; anche il cavaliere - santo per antonomasia - quel Galaad che nel romanzo mistico-cavallersco duecentesco detto Queste del Graal era rivestito di veri e propri caratteri cristici - portava uno scudo argenteo rosso crociato.

La guerra dei <<Cent'Anni>>; sul piano formale scoppiò come conflitto dinastico per la successione della corona francese, allorché Edoardo III rivendicò - non senza ritardo - i suoi diritti al trono che era stato fino al 1328 suo zio. Ma c'erano in realtà sul tappeto irrisolte questioni vassallatiche e la ricca posta costituita dall'egemonia sulla regione tra la Somme e la Schelda e le sue operose, opulente città.

Niente inoltre, nella Cristianità ocidentale, sembrava potersi paragonare in potenza e in bellezza alla fiera e scintillante cavalleria francese, espressione d'una ricca, superba nobiltà feudosignoriale. Ma le continue guerre ai confini del Galles e della Scozia avevano insegnato agli inglesi come si dovessero adottare le tecniche di combattimento ai terreni scabri, accidentati, disseminati di boschi e di macchie, che la pioggia rendeva sovente pesanti e fangosi. I cavalieri inglesi avevano imparato per tempo dunque a scendere dalle loro cavalcature e a combattere a piedi, usando le loro lunghe lance come picche. 

La superiorità militare inglese ben presto s'impose, sia per l'abilità con la quale Edoardo aveva saputSi o acquistarsi alleati - dai fiamminghi ai bretoni - , sia per l'eccezionale contributo guerriero fornito da forti, feroci, frugali montanari scozzesi e gallesi: fanterie coraggiose e intoccabili che a più riprese riuscirono a uiliare la superba cavalleria aristocratica francese. Ad essi si affiancavano gli arcieri inglesi e gallesi, i bowmen armati dei loro lunghi archi che dal Duecento erano il simbolo stesso della loro condizione di uomini liberi, yeomen e freeholders: contadini soggetti non alla giurisdizione baronale bensì a quella diretta del sovrano.

La freccia lunga era troppo sensibile al vento e aveva una capacità di penetrazione relativamente scarsa, mentre i verrettoni delle balestre erano precisi e penetravano a fondo: in cambio, però nel tempo necessario per un solo tiro di balestra, un arciere riusciva a scaricare cinque o sei volte la sua arma, senza contare la maggiore gittata degli archi rispetto alle balestre. Questi due fattori, combinati, furono uno degli elementi decisivi della superiorità inglese, alla quale contribuirono anche le prime aritiglierie a polvere, le <<bombarde>>.

A Courtray, nel 1302, il fiore della cavalleria di Francia fu umiliato dalle intrepide e feroci fanterie comunali fiamminghe: <<battaglia degli sproni>> fu chiamata quella giornata in cui la gente di Fiandra ammassò in grossi mucchi i lunghi aurei speroni dei nemici atterrati. Allo stesso modo, o in modo molto simile, i cavalieri francesi furono spesso battuti fra Tre e Quattrocento. A Poitiers fu preso prigionieo anche il re di Francia Giovanni II il Buono, il quale, condotto in Inghilterra, lasciò un regno in preda a ricolte borghesi e contadine (le celebri Jacqueries). Intanto, gli inglesi avevano anche distrutto la flotta nemica e si erano impadroniti saldamente di Calais.

A Crécy nel 1346, a Poitiers nel 1356, più tardi ad Anzicourt nel 1415 - l'orgoglio nobiliare francese fu umiliato: dinanzi alle cariche o andate della cavalleria francese gli inglesi opposero una linea sottile ma micidiale di arcieri, rinforzata da cavalieri appiedati. Il cronista Froissart ricordava un cielo di battaglia bianco di frecce, come per una terribile nevicata. I cavalli francesi cadevano crivellati di frecce disseminando il disordine, intralciando e scompaginando le andate successive della cavalleria, obbligando i cavalieri che venivano loro dietro a dar di volta ai loro destrieri o a rinculare: ed erano la confusione, il panico, la fuga. A questo punto i loro colleghi e avversari inglesi rimontavano in sella e, appoggiati da reparti freschi fin allora tenuti di riserva, piombavano su di loro per il colpo di grazia. 

Si giunse nel 1360 alla pace di Brétigny: Edoardo III rinunziò alle sue pretese sulla corona di Francia, in cambio del riconoscimento della sovranità sulla Guienna che faceva di lui il padrone di tutto il Sudovest. Ma la guerra riprese nel 1369: sotto la guida del nuovo re Carlo V il Saggio i francesi, ammaestrate dalle sconfitte della precendente fase bellica, evitarono gli scontri frontali e le battaglie campali dandosi in cambio a una serrata tattica di guerriglia, nella quale fu maestro il conestabile Bertrard du Guesclin.

La prima fase del conflitto si chiuse con un'ambigua battuta d'arresto determinata dalle morti, a breve distanza fra loro, di Edoardo III d'Inghilterra e nel 1377 di Carlo V di Francia nel 1380. In entrambi i paesi i diritti al trono erano passati a due minorenni, Riccardo II al di là della Manica, Carlo VI al di qua di essa: ed entrambi si erano trovati a dover subire la tutela dei loro nobilissimi parenti, mentre i due paesi erano preda d'un regresso demografico di ampie proporzioni e venivano percorsi da continui fermenti di rivolta sia nelle città sia nelle campagne. Era quello, del resto, un altro aspetto di quella vasta fase involutiva della storia euro - occidentale del XIV secolo. 

Carlo VI al ventesimo anno d'età - la tutela edi suoi potenti e discordi zii, i duchi Luigi d'Angiò, Giovanni di Berry e Filippo di Borgogna. Il matrimonio fra il giovanissimo sovrano e Isabella di Baviera non migliorò la situazione: la lotta per il potere effettivo andò radicandosi tra due fazioni, i partigiani di un altro zio di Carlo VI, il duca Filippo di Borbone, e i sostenitori del fratello del re, Luigi duca d'Orléans. Mentre in Inghilterra la situazione era andata assestandosi a partire dal 1399 con l'ascesa al trono della dinastia dei Lancaster, in Francia il troppo lungo regno del debole Carlo VI - caduto anche preda della follia - aveva consegnato il paese ai capi dei grandi <<principati d'appoggio>> che se lo contendevano: i duchi di Berry, d'Orléans, d'Angiò e Provenza, di Borgogna. Ben presto, l'accanita lotta per il potere si sarebbe ristretta a Filippo l'Ardito duca di Borgogna, senza dubbio l'uomo più potente e il politico più saggio del regno, e a luigi d'Orléans. Con la morte di Filippo, nel 1404, il duello sarebbe continuato con suo figlio Giovanni, che qualche anno prima, alla crociata, si era guadagnato il cavalleresco epiteto di <<Senza Paura>>: egli aveva preso in tutti i sensi il posto ed assunto il ruolo del padre.

Giovanni era dotato d'una fredda e spregiudicata lucidità politica: mancava però dell'autorevolezza e della prudennza paterne, Borgonga e Orléans si misuravano e s'intralciavano a vicenda. Giovanni impediva a Luigi d'insignorirsi di Genova che in quel momento era alla ricerca di un protettore; e questi in cambio impiantandosi nel Lussemburgo, rompeva le uova nel paniere alla politica borgognona d'egemonia sui Paesi Bassi. La rivalità si estendeva ai grandi problemi politici: il duca d'Orléans si ponunziava formalmente entro le pretese dei Lancaster che non avevano rinunziato alle loro mire sul trono di Francia, mentre quello di Borgogna rispondeva assumendo un atteggiamento possibilista; il primo ribadiva l'ormai tradizionale lealismo al papa avignonese nella questionde dello scisma nato nel 1378, e il secondo ribatteva avvicinandosi al pontefice di Roma. 



La corte mostrava dunque di propendere ormai per il duca d'Orléans, anche perché egli sembrava aver del tutto dalla sua cognata la regina: senza dubbio fra i due v'era un'intesa, forse una forte complicità politica, ma si sussurrava con sempre maggior consistenza che essi fossero anche amanti. Qual'era il vero segreto dell'ascendente del fascinoso sulla sovrana? Giovanni di Borgogna fremeva: la sua politica di potenza e di splendore dinastico l'aveva ridotto pieno di debiti e quasi in miseria, mentre il cugino gli negava qualunque accesso alle finanze pubbliche, l'unica risorsa che gli avrebbe consentto di risollevarsi. Decise quindi, alla sua maniera fredda e violenta di risolvere il problema. La notte del 23 novembre 1407 il nodo gordiano fu reciso.

Il <<pasticciaccio brutto di Rue Ville - du Temple>>: lì, a Parigi, nella notte del 23 novembre 1407 alcuni sicari assassinarono Luigi duca d'Orléans, uno dei padroni della Francia del tempo; o di quel che ne rimaneva. Veramente la fama di freddezza e d'intrepido animo del <<Senza Paura>> non resse troppo, in quel frangente, alla prova. Al funerale del cugino aveva ostentato un grande dolore: ma scenate del genere, con pianti e stracciamenti di vesti, erano del tutto naturali nel gusto del tempo. Non appena si rese conto però che le indagini stavano portando diritto al suo Hotel d'Artois, dov'egli teneva nascosti gli assassini, prima conferì con lo zio Giovanni di Berry confessandogli di aver fatto uccidere il cugino per istigazione del diavolo - che, come tutti sanno, ha sempre ogni colpa -, quindi sfuggì al sicuro nella sua Fiandra e da Gand affidò a Simon de Solux l'incarico di scrivere un primo memoriale in cui si giustificava il delitto. 

Si consigliò ad Omines con due retori e studiosi  che nel 1406 a Parigi, avevano discusso il problema dello scisma pontificio: Pierre aux Boeufs e soprattutto il brillante maestro di teologia Jean Petit uomo di fiducia della casa di Borgogna e sostenitore deciso della causa del pontefice romano. Noi lo chiamiamo Jean Petit perché così siamo abituati a fare, ma è incerto si tratti di un nome e un cognome: per il cancelliere dell'Università di Parigi Jean Gerson, che lo detestava, egli era Johannes Parvus <<Giovanni il Piccolo>>.

La faccenda di Luigi d'Orléans fu discussa in pubblico. L'8 marzo del 1408, all'Hotel de Saint - Pol dinanzi a un uditorio di gran livello: il Consiglio reale, nel quale sedevano tra gli altri il re di Napoli Luigi II d'Angiò, Giovanni dica di Berry e Giovanni VI il Buono duca di Bretagna - Jean Petit recitò il suo lungo memoriale intitolato Justification de monseigneurle dic de Bourgogne sur le fait de la mort ed occision de feu le duc d'Orléans.

Il tema scelto era il versetto biblico <<Radix omnium malorum cupiditas>>, svolto con razionale distinzione scolastica e con dovizia d'erudizione sacra e profana. Il centro dell'assunto corrispondeva a un veccio argomento, su cui avevano lavorato i Padri della Chiesa e i Maestri scolastici - e su cui avrebbero più tardi insistito i monarcomachi ugonotti e gesuiti - : la legittimità dell'uccisione del tiranno. In un'accurata sequenza di comprovate realtà e le spudorate calunnie. Sarebbe stato Luigi a organizzare, nel 1392, quel <<Bal des Ardents>> al quale il misero re folle Carlo VI - che in quell'occasione avrebbe dovuto essere assassinato - era sfuggito per caso; ancora, nel festoso convento dei celestini, il vizioso duca si sarebbe intrattenuto col <<mago>> Filippo di Méziéres in progetti di morte o di veneficio; del resto, Luigi avrebbe assistito di sua volontà, anzi in seguito a una precisa programmazione, a un'evocazione demoniaca celebrata da un frate allontanato dal suo Ordine, nel corso della quale i due diavoli Heremas ed Estramain, apparsi in abiti verdi (era, quello, un dei colori diabolici d'ordinanza), avrebbero consacrato delle armi e un anello prima che il nefando rito si concludesse con il furto del corpo di un impiccato, asportato dalla forca. La Justification si accaniva in modo speciale contro il ppovero Filippo di Méziéres mistico allievo di Pietro Thomas romanntico ideatore di corciate e di riti cavallereschi.

Il successivo 11 settembre, l'abate Thomas di Cerisy presentò una controdimostrazione, abbiamo notizia di un progetto di replica del Petit a tale documento, ma pare non se ne facesse di nulla. Ad ogni modo, dopo un primo istante di entusiasmo per l'abilità retorica del maestro filoborgognone, la violenza e la tendenziosa capziosità del suo assetto finirono con l'attirargli una quantità di critiche e di ostilità anche feroci. Fosse la durezza degli avversari a provocare il suo isolamento, fosse piuttosto la sostanziale ingratitudine del duca di Borgogna a determianre l'emarginazione, i retore un tempo adorato dalle folle parigine e dalla raffinata gente di corte si spense ormai dimenticato a Hendin nel 1411. La Justification fu denunziata dal Concilio di Costanza, ora che la questione dello scisma si andava risolvendo, gli estremisti dell'una e dell'altra parte andavano scaircati, e Jean Petit si era troppo compremesso con il partito romano. 

Ormai comunque il veleno sparso dal Petit e dai suoi pari aveva sortito lo stesso effetto: e come dice il buon William Shakespeare, il malanno era combinato. La lotta tra gli <<armagnacchi>> - così chiamati dal conte Giovanni I d'Armagnac, suocero del nuovo duca d'Orléans Carlo, figlio dell'ucciso - e i <<borgognoni>> era ormai cominciata. Giovanni <<Senza Paura>> non avrebbe mai perdonato a Jean Gerson - che un tempo era pur stato appoggiato dalla sua famiglia - le sparate contro quel Petit che, tuttavia egli aveva presto dimenticato, con scarsa riconoscenza per i servizi resi. Il cancelliere dell'Università di Parigi, terminato il Concilio di Costanza, non sarebbe potuto rientrare nella sua città ormai egemonizzata, da partigiani che portavano cucita sui berretti e sul petto la bianca croce di Sant'Andrea, il patrono della dinastia borgognona.  

Il cronista Enguerrand de Monstrelet si servì di quel testo prolisso e mediocre, prezioso tuttavia per chi intenda studiare i meccanismi del consenso e della propaganda del XV secolo; per chi voglia capire come a quel tempo, si seguisse il peraltro antico sport di sbattere il mostro in prima pagina e di fondare sulla menzogna e sulla calunnia i miti politici del momento. 

Il delitto aggravò il già durissimo scontro fra i due partiti dei <<borgognoni>> - appoggiati di nuovo dalla regina Isabella nonché dall'Università di Parigi e dai violenti borghesi della capitale desiderosi d'un governo libero ed efficiente - e degli <<armagnacchi>>. Giovanni <<Senza Paura>>, decise a questo punto di risolvere la situazione liberando il regno dall'instabilità in cui lo stava mantenendo l'incapace Carlo VI: sollecitò il nuovo e d'Inghilterra, Enrico V di Lancaster, a riprendere il cammino dei suoi successori verso il regno di Francia. Strumento del rinnovarsi della prretesa al trono fu la richiesta, da parte di Enrico, della mano di Caterina di Valois del sovrano francese. Il partito armagnacco, tuttavia, rifiutò di piegarsi alla nuova situazione e appoggiò i diritti el fratello di Caterina, i <<delfino>> Carlo (l'erede al trono di Francia si chiamava delfino dal soprannome dei conti del Delfinato, area alpina nordoccidentale divenuta fin dal 1349 suo appannaggio); Enrico rispose sbarcando nel 1415 in Francia ad Harfleur, con un esercito di 6000 uomini, con i quali batté gli avversari nella battaglia campale d'Anxicourt. 

La morte di Giovanni <<Senza Paura>>, fatto uccidere quattro anni più tardi in un agguato al ponte di Montereau dal delfino Carlo - chhe intendeva in tal modo vendicare Luigi d'Orléans, ma soprattutto punire colui che era stato la causa prima dela crisi dei suoi diritti alla corona - non incise sul corso degli avvenimenti; anzi, indusse il nuovo duca di Borgogna Filippo III, succeduto al padre ucciso, ad appoggiare con maggioe e più decisa forza il sovrano di casa Lancaster che veniva a strappare ogni diritto e ogni speranza al principe assassino, sospettato olretutto d'essere il frutto illegittimo degli amori di Isabella di Baviera e il cognato Luigi d'Orléans. Le nozze tra Enrico d'Inghilterra e Caterina di Francia, celebrate nel 1420, furno accompagnate dal trattato di Troyes, mediatore e regista del quale fu il nuovo duca di Borgogna: con esso si stabiliva che Enrico V d'Inghilterra, sarebbe asceso al trono francese alla morte del suocero mantenendo tuttavia separate le due corone. Contestualmente, Carlo VI diseredò suo figlio Carlo, il delfino. 

Il delfino s'incaricò tuttavia di evitare che il meccanismo previsto dagli accordi di Troyes funzionasse come si era previsto. In un medesimo anni il 1422 vennero a mancare a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro Enrico V e Carlo VI. Ma la regale coppia d'Inghilterra aveva fatto in tempo a generare un figlio, al quale era stato imposto il medesimo nome del padre. Fu lui, col nome di Enrico VI, a cingere la sua povera testolina d'infante - ancor prima di cominciare a camminare e a parlare - delle due pesanti corone di Francia e d'Inghilterra. 

La Francia si trovò divisa in tre blocchi. Il Nord e l'Ovest del paese erano governati dagli inglesi sotto il pugno di ferro di Giovanni duca di Bedford, zio del re-bambino, a oriente si stendeva la complessa, variegata, ricca, operosa area percorsa dalla Mosa che collegava le Alpi al Mare del Nord e che a vario titolo era posseduta o comunque governata dal duca di Borgogna, quel Filippo - detto <<il Buono>> dai suoi borghesi che gli erano grati per la generosità del regimme fiscale - alleato sicuro e potente degli inglesi ma teso a una politica europea di vasto respiro, che guardava ad est verso l'Impero romano-germanico; infine, a sud della Loira, il dominio del delfino Carlo - per dileggio detto <<re di Bourges>> - teneva con poca sicurezza e scarsa energia, insieme un paese dall'ampia estensione ma dalla vita civile incerta, fortemente condizionato nella sua stessa compagine dalla Guienna, enclave inglese tra Gironda e Pirenei. Molte erano però le zone marginali e confinali sulle quali l'autorità era contestata e nelle quali ribollivano le passioni e le lotte partigiane. 

La guerra, le carestie, le pestilenze avevano impaurito, stancato, prostrato le povere genti di Francia come di tutta Europa. Frequenti nella seconda metà del Trecento, erano state anche le sollevazioni contadine e quelle cittadine. La pressione fiscale resa necessaria dalla guerra endemica, aveva esasperato gli strati più umili della popolazione, che le continue incursioni delle bande di mercenari - relativamente poco pericolose in guerra, ma ben più avide e feroci durante le fasi di tregua, quando restavano momentaneamente disoccupate - riducevano periodicamente alla disperazione. L'inquietudine spirituale e religiosa teneva dietro all'instabilità sociale ed economica. La Chiesa sorvegliava attentamente con i suoi predicatori popolari e i suoi strumenti inquisitoriali, per impedire il dilagare della propaganda eretiicale, ma alle istanze mistiche sempre più forti non solo tra religiosi, bensì anche tra i laici, (e tra le donne), faceva riscontro una sensibilità collettiva eccitata dalla paura e dalle sofferenze, sensibile al ritorno di antiche superstizioni e al radicarsi di nuove, attenta alle voci che parlavano di sogni, di visioni, di apparizioni demoniache, di mostri, di prodigi. Era il tempo delle grandi processioni penitenziali, come quella dei <<Bianchi>> che alla vigilia del nuovo secolo, portavano a Roma migliaia di pellegrini e di flagellanti, era il tempo delle grandiose e paurose rappresentazioni della Morte che trionfa su tutte le cose e che danza con tutti. 

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