mercoledì 2 agosto 2017

Maria la sanguinaria. La principessa. II

Maria la sanguinaria. La principessa.


Enrico VII


Due anni dopo la morte del bimbo di Capodanno, Enrico attraversò la Manica e mosse guerra alla Francia a capo di un grande esercito. Da lungo tempo aveva ormai cessato di piangere la tragedia della morte del figlio. Benché a ventuno anni fosse ancora sotto la tutela dei consiglieri che avevano retto il governo fin dall'inizio del suo regno, egli andava sempre più manifestando la propria volontà, come indicava la spedizione oltremare. Nessun esercito inglese aveva invaso il continente a memoria d'uomo, e con molta sagacia politica Enrico VII aveva sempre cercato di conseguire gli sperati obiettivi diplomatici senza le spese e i rischi di un conflitto. Anche ora i consiglieri avevano pregato il giovne monarca di non mettere in pericolo il paese affrontando di persona le inccognite degli scontri, ma i loro suggerimenti seguivano esclusivmente la logica. 

Era insito nella natura di un grande sovrano essere in primo luogo un uomo d'arme e poi uno statista: l'avevano dimostrato tutti i più famosi predecessori di Enrico, da Edoardo I, che aveva combattuto nel Galles, a Edoardo II, che con i figli aveva partecipato alla guerra dei Cent'anni. La società feudale che aveva dato vita all'aristocrazia guerriera si era disintegrata da varie generazioni, ma i valori peronaali della classe cavalleresca: l'audacia e la resistenza in combattimento, l'indomabilità, la generosità la cortesia verso alleati e nemici, la fedeltà a un rgido codice d'onore - erano tanto più entusiasticamente apprezzati quanto più veniva meno l'utilità puramente militare dei cavalieri. E gli esempi di valore individuale erano più numerosi ora che in ogni altra epoca posteriore ai giorni di Riccardo Cuor di leone e del Saladino. Tra questi campioni spiccava un francese contemporaneo di Enrico, più anziano di lui: il signore di Bayard, i cui successi nelle battaglie sostenute in Italia erano ben noti alla corte inglese. In un'occasione, si diceva, egli era riuscito a difendere da solo un ponte contro l'assalto di duecento soldati spagnoli, mentre un'altra volta aveva generosamente rifiutato la ricompensa di 2.500 ducati offertagli da un grato nobile cui aveva salvato la moglie e le figlie dal disonore.   

Alla campagna Enrico aveva attribuito la veste ufficiale di una corciata. L'ira di Giulio II contro il sovrano francese era tale da averlo indotto a emanare un breve che destinava a Luigi XII per concedere il trono a Enricoe che avrebbe avuto effettonon appena quest'ultimo avesse conquistato la Francia. Verso la fine di luglio l'esercito di Enrico lasciò il suolo inglese di Calais, dove era sbarcato tre settimane prima, e si diresse asudest verso la città di Thérouanne. L'esercito arrivò senza incidenti dinnanzi alle mura della città e la mise sotto assedio. 


Maria I

Thérouanne cadde in breve tempo e, dopo aver preso possesso della città con una fastosa cerimonia d'ingresso oltre le mura, Enrico la donò a Massimiliano - il quale ordinò di distruggere tutti gli edifici tranne la vecchia Chiesa - mentre tenne per sé la città di Tournaai, che aveva resistito all'assedio inglese solo otto giorni. Con due città conquistate e un bel numero di importanti personaggi catturati; il cui riscatto, sicuramente versato dagli ansiosi congiunti, avrebbe compensato gran parte del costo della campagna, Enrico riportò l'esercito oltre la manica. Era stata una crociata proficua e persin piacevole: tra un assedio e l'altro, il sovrano si era fermato per varie settimane di feste e spettacoli alla corte della reggente delle Fiandre e vi sostò di nuovo nel corso della marcia verso Calais. Fatto più importante, la spedizione aveva dato a Enrico quella fama militare cui egli anelava. Gli stendardi e gli speroni strappati ai francesi erano ottime spoglie per una prima campagna. 

La più decisiva vittoria militare inglese del 1513 ebbe luogo in assenza di Enrico e sotto il comando nominaledi Caterina. A giugno, quando era salpato, Enrico aveva affidato alla moglie la reggenza del governo e il comando del resto dell'esercito, prevedendo che la sua partenza sarebbe stata il segnaale per qualche incursione oltre confine da parte degli scozzesi. Già in febbraio Lord Dacre, messo a guardia del confine settentrionale, aveva avvertito Enrico che il sovrano scozzese, Giacomo IV, stava radunando uomini in vista di un'invasione. Inoltre Giacomo si era procurato una modernissima artiglieria da assedio e aveva perfino rischiato di causare notevoli danni quando uno dei nuovi cannoni appena fusi, che egli stava provando nel castello di Edinburgo, era esploso al momento del tiro. 


Maria Tudor, Charles Brandon


La sfida di Giacomo, aveva raggiunto Enrico nel mezzo dell'assedio di Thérouanne. Il re aveva allora inviato a Londra il vescovo di Durham, con l'incarico di sovrintendere all'organizzazione della difesa delle contee settentrionali, ma aveva lasciato la responsabilità operativa a Caterina, e al Lord tesoriere Surrey, luogotenente generale del Nord. Caterina si era occupata personalmente di molti dei dettagli amministrativi e aveva messo le sue dame a cucire standardi per i contingenti di cavalleria agli ordini di Surrey. Essendo una donna di grande intelligenza e capacità, le aveva fatto piacere coordinare l'impresa <<Il mio cuore batte per la sfida>> aveva scritto a Enrico. Il 9 settembre gli invasori scozzesi si erano scontrati con le forze di Surrey sulle colline di Flodden, poco al di qua del confine inglese, ed erano stati sconfitti in tre ore. Il massacro era stato terribile: i condannati, i conti e gli altri ecclesiastici, il re stesso - avevano preferito battersi a morte - benché consapevoli di essere ormai battuti. Al termine della battaglia il suolo di Flodden era coperto di cadaveri di nobili, tra cui quello sfigurato di re Giaccomo, caduto accanto al suo stendardo. Il vescovo di Durham aveva elogiato Surrey e i soldati, ma aveva attribuito la vittoria alla protezione di San Cutberto, sotto il cui vessillo avevano combattuto i suoi uomini. 

A una settimana di distanza dalla carneficina di Flodden, Caterina diede alla luce un bambino morto e circa un anno dopo partorì un altro figlio che morì a pochi giorni dalla nascita. Il padre Ferdinando la cui pazienza per i ripetutti aborti e la poco vitale prole di Caterina era svanita da tempo inviò in Inghilterra un dottore e una levatrice spagnoli: nel tentativo di rendere più sicura la sopravvivenza dei futuri nipoti. Non sappiamo quali fossero le loro terapie, ma le comuni cure mediche contro la sterilità includevano beveroni a base di urina di capre e pecore incinte e suffumigi al collo dell'utero ottenuti ponendo una lampada di ottone sotto un'ampolla d'acqua e incanalando il vapore nellaa vagina con una cannula. I rimedi popolari suggerivano invece l'uso di erbe e incantesimi: semi dia cetosa legati a un braccio, amuleti con iscrizioni di nomi magici o religiosi e scapolari contenenti oggetti come le dita e lo sfintere anale di un bambino nato morto. 

Enrico non poteva trascurare il fatto che anche nella sua famiglia esisteva qualche tara: dei sette figli avuti dai suoi genitori, tre maschi e quattro femmine, tre erano morti durante l'nfanzia e un quarto, il principe Arturo, aveva raggiunto appena l'adolescenza. All'epoca molte donne perdevano metà dei figli nei primi mesi o anni di vita, ma Caterina li aveva persi tutti, fnora, e si stava avvicinando alla trentina. 
Nel 1515, per fortuna, la nuova gravidanza di Caterina apparve del tutto normale. Il parto sarebbe dovuto avvenire nel febbraio dell'anno successivo, e la notizia della prossima nascita, fece il giro dei circoli diplomatici. Il nuovo re di Francia, Francesco I (Luigi XII era appena morto), inviperito perché Enrico non gli aveva chiesto personalmente di mandare un suo legato come padrino del nascituro e aveva invece affidato il messaggio al cognato Suffolk, annunciò di conseguenza che non avrebbe inviato aalcun rappresentante. 


Isabella di Castiglia

Il parto avvenne lunedi 18 febbraio 1516, prima dell'alba, nel palazzo di Greenwich. Era nata una bambina, ma la delusione fu momentaneamente superata dalla gioia per la sua sopravvivenza. Tre giorni dopo la piccola venne battezzata nella vicina chiesa dei frati, dove era stato trasportato il fonte in argento riservato ai baattesimi reali. L'evento non ebbe carattere eccezionale, a parte l'alto lignaggio di padrini e madrine. Il terreno fangoso era stato coperto prima con uno spesso strato di ghiaia e poi con paglia, ed erano state erette delle gradinate lungo entrambi i lati del tragitto che il corteo battesimale doveva percorrere dal cancello della corte al portico della chiesa. La neonata era in braccio alla madrina e così strettamente avvolta in coperte, per ripararla dal freddo, che gli spettatori non riuscirono a intravedere neppure il volto. Dinnanzi alla porta della chiesa era stato costruito in ebano, un arco di legno coperto di drappi: padrini e madrine vi si fermarono sotto e un sacerdote benedì la bambina, chiamandola Maria. 

Terminata questa parte della cerimonia, tutti entrarono in chiesa per i riti successivi. Sfilando accanto alle pareti adorne di tessuti ricamati e impreziositi con perle e gemme, un gruppo di gentiluomini e nobili si diresse verso l'altare maggiore, dove erano raccolti gli attrezzi battesimali: il bacile, le candele, il sale o l'olio santo. Quattro cavalieri reggevano il baldacchino d'oro sovrastante la principessina, tenuta ora in braccio dalla contessa di Surrey. Madrine e padrini erano di sangue reale o di rango ducale: Katherine unica figlia vivente di Edoardo IV Plntageneto e zia di Enrico VIII; Margaret, contessa di Salisbury, nipote si Edoardo IV, e quindi anche lei appartenenete al ramo dei plantageneti; Charles Brandon, duca di Suffolk, zio della neonata in quanto marito di Maria, la bella rosa dei Tudor; il duca e la duchessa di Norfolk. 


Luigi XII


Giustiniani lasciò passare del tempo prima di congratularsi con l neo padre a nome del doge di Venezia: <<Si fosse trattato di un maschio>> scrisse poi il doge <<non sarebbe stato opportuno rimandare i rallegramenti>>. Ma una femmina era una cosa diversa. Circa una settimana dopo la nascita di Maria, l'ambasciatore chiese udienza a Enrico e si complimentò con lui per la buona salute della moglie e della figlia. Allo stesso tempo spiegò che il doge sarebbe stato più lieto dell'arrivo di un principino aggiungendo, con un discorso attentamente preparato, che anche Enrico probabilmente sarebbe stato più contento se avesse avuto un maschio e che bissognava comunque rassegnarsi all'imperscruutabile volontà di Dio. Interrompendo questo capolavoro, di retorica, Enrico osservò che, dal momento che lui e la regina erano molto giovani (affermazione discutibile nel caso di Caterina), non v'era alcun motivo per rassegnarsi :<<Se questa volta abbiamo avuto una femmina, con l'aiuto di Dio i maschi seguiranno>>. 

Maria Tudor venne al mondo in una stagione di lutti. Il re Ferdinando, malato già da quaalche tempo, era morto alla fine di gennaio e la triste notizia era giunta in Inghilterra poco prima del parto. La regina ne fu informata solo dopo la nscita della piccola e certo si addolcì molto al pensiero che il padre non aveva saputo del lieto evento. Caterina non amava molto il genitore: non lo vedeva da vent'anni, era stata trattata da lui come merce di scambio piuttosto che come figlia e, tutto sommato, Ferdinando era tutt'altro che un tipo amabile. Ma ella aveva sempre nutrito un forte senso del dovere, e una notevole paura, nei suoi confronti; inoltre la sua morte spezzava un altro dei suoi legami con la Spagna e con il venerato ricordo della madre. Va aggiunto, a onor del vero, che l'ultima malattia di Ferdinando era stata una vicenda troppo tragicomica per suscitare un profondo cordoglio. Alcuni anni prima il sovrano spagnolo aveva deciso di avere un figlio dalla seconda moglie, Germaine de Foix; ma, poiché lui aveva già superato la sessantina, l'impresa si presentava ardua, allo scopo di rinvigorire i sopiti ardori del coniuge, l'ambiziosa Germaine aveva preso a mescolargli nelle vivande un potente afrodisiaco, una poziione che alla lunga aveva procurato al sovrano attacchi di convulsioni e danni al cervello. Dopo due anni di questa cura Ferdinando non solo era più o meno costantemente malato e fuor di senno, ma continuava a praticare il suo passatempo preferito, la caccia, in tal modo indebolendo ulteriormente la sua malferma salute. Infine nel gennaio 1516 Ferdinando <<era spirato>>.

La morte di Ferdinando segnò la scomparsa della generazione dei nonni di Maria che non ne avrebbe conosciuto neppure uno, anche se ne portava i segni. I più romantici e illustri erano gli avi spagnoli. Erede al trono mediterraneo d'Aragona, Ferdinando aveva trascorso la giovinezza a combattere accanto al padre nella guerra civile contro i ribelli catalani; e dopo avere sposato a diciotto anni Isabella, erede di un altro regno, aveva partecipato alle lote sostenue dalla moglie per assicurarsi il diritto al trono di Castiglia. Competente più che brillante sia come soldato, sia come sovrano, Ferdinando era destinato avenire messo in ombra dalla straordinaria consorte. Guerriera, vincitrice dei Mori infaticabile amministratrice, patrona della cultura e delle esplorazioni marittime, Isabella di Castiglia aveva la mentalità di un cavaliere feudale e incarnava il più ssacro ideale della Spagna: la tradizione della crociata. Quando il fratello Enrico IV, era morto senza lasciare eredi legittimi, Isabella si era rifiutata di riconosce re le pretese della nipote e si era battuta furiosamente finché non era riuscita a scacciare la rivale dal paese. Il matrimonio non l'aveva indotta a concedere a ferdinando il controllo del proprio regno e aveva continuato a governare come una sovrana indipendente, facendo fronte a varie rivolte, all'irrequietezza dell'orgogliosa nobiltà castigliana e al tedio quotidiano degli affari di Stato. Se non era sul campo di battaglia, riceveva gli ambasciatori, conferiva con i consiglieri, si occupava di problemi legali o bellici dal mattino alla sera e poi trascorreva gran parte della notte a dettare lettere e documenti ai segretari. Non era stata preparata a trattare gli affari pubblici e conosceva poco il latino, ragione per cui nel poco tempo libero l'aveva studiato fino a padroneggiarlo. 

Tali benemerenze, importanti come erano per Isabella, erano passate inosservate alla maggioranza dei sudditi, i quali laa conoscevano molto di più come la guerriera vincitrice dei Mori. Fin dal Medioevo i regni cristiani della Spagna avevano trovato un tratto distintivo nell'opposizione al dominio moresco della penisola strappando ai nemici un territorio dopo l'altro, tanto che all'epoca di Isabella solo Granada era ancora in loro mani. Un decennio di assedi e di assalti sotto lo stendardo della sovrana, interrotti solo quando Isabella si era concessa una pausa per partorire sua figlia Caterina, si era concluso nel 1492 con la caduta di Granada. Sposandosi tra loro, <<i re cattolici>>, come venivano chiamati Ferdinando e Isabella, avevano unifcato la Spagna e ne avevano fatto un regno prfondamente legato alla fede di Roma. 

Più avanti negli anni, Isabella era passata dalla veste di eroina trionfante a quella di malinconica reclusa. Era divenuta pigra e cupa, e le lacrime di pietà religiosa non si distinguevano da quelle piante per le infedeltà di Ferdinando. Sul ruvido abito di suora laica del Terz'Ordine francescano indossava soltanto mantelli neri. 

Il nonno paterno di Maria, Enrico VII non aveva mai parlato di Ferdinando e Isabella senza toccarsi il cappello in segno di rispetto. In seguito dopo il matrimonio tra Caterina e Arturo, era stato solito vantarsi che lui e la moglie erano diventati <<fratello e sorella>> dei grandi sovrani spagnoli e in presena del loro ambasciatore aveva solennemente giurato, la mano sul cuore, che se avesse udito un suo suddito parlare contro i re cattolici <<nel suo intimo non lo avrebbe mai più stimato>>.

Quando aveva conquistato il trono inglese, nel 1485, Enrico era di fatto un fuori legge marchiato da un bando di proscrizione che lo aveva privato dei diritti civili, dei titoli e dei beni. Per via di madre avrebbe potuto vantare diritti sulla corona, ma non aveva né denari né sostenitori. Il bando lo aveva spinto a cercare asilo nel continente dove a ventotto anni aveva infine radunato un piccolo esercito con cui, attraversata la Manica, aveva affrontato e sconfitto a Bosworth il sovrano regnante, Riccardo III. Ovviamente la vittoria e la successiva incoronazione avevano annullato l'infamante condanna, ma per quanto il Parlamento avesse subito dichiarato traditori tutti quelli che si erano schierati contro Enrico a Bosworth, la sua corona era apparsa precaria. Per consolidarla era indispensabile superare non solo la gravve minaccia rappresentata da Parkin Warebeck, che aveva in modo convincente propinato a molti monarchi europei la frottola di essere il minore dei due figli di Edoardo IV morti assassinati, ma anche il bizzarro pericolo costituito dal pretendente irlandese Lambert Simnel, autoproclamatosi Edoardo VI. Era indispensabile, inoltre, sopravvivere a intrighi d'ogni sorta, quale quello ordito da creduli cospiratori qui un astrologo romano aveva fornito un unguento che, spalmato sulle pareti di un corridoio del palazzo avrebbe dovuto provocare l'assassinio del re <<per mano di coloro che più l'amavano>>.

La moglie di Enrico VII Elisabetta di York, aveva vissuto la vita ritirata di una regina medievvale, partorendo figli a intervalli regolari e aggiungendo all'autorità del marito il prestigio del casato York (in quanto figlia di Edoardo IV). Alla splendida cerimonia della sua incoronazione era arrivata su una portantina di tessuto d'oro, con una lussuosa veste e una corona ingioiellata sui <<bei capelli biondi che le scendevano ben oltre la schiena>>; ma in seguito, avendo scelto quale proprio motto le parole <<umile e riverente>>, si era chiusa in una sorta di crepuscolo fatto di attese di parto e di stanze dei bambini. 

Della prole di Enrico e di Elisabetta il più robusto e il più turbolennto era sempre stato il secondo, chiamato nell'infanzia principe Hal. Un bel bambino dalla faccia rotonda, e la carnagione rosa, principe Hal era stato grtificato di altisonanti titoli priima ancor che compisse un anno - Governatore dei Cinque Ports, Connestabile del castello di Dover - e a tre anni era stato sia creato cavaliere dell'Ordine del Bagno sia ammesso all'ordine della Giarrettiera. A quattro anni il piccolo era già stato in grado di cavalcare da solo, e con perizia, nel corteo ufficiale diretto all'abbazia di Westminster, dove sarebbe stato nominato duca di York, un titolo che il padre aveva deciso di attribuirgli subito per contrastare Perkin Warbeck, il quale avanzava pretese sullo stesso titolo e stava prepafrando un'invasione in Inghilterra dal continente. Erasmo, che incontrò il futuro Enrico VIII quando questi aveva otto anni, aveva dichiarato che il principe possedeva in misura reale doti di dignità e ccortesia e che prevedeva per lui un ottimo futuro, come maschio secondogenito, enrico era stato esentato dagli obblighi e dagli impegni di un erede al trono, ma a dieci anni e mezzo la morte del fratello lo aveva innalzato improvvisamente al rango di prncipe di Galles. Da allora in avanti egli aveva iniziato a imparare le arti cavalleresche e ad acquisire la popolarità di un futuro sovrano. A sedici anni il principe Hal era più alto del padre con <<gambe e braccia gigantesche>>. L'ambasciatore spagnolo aveva sostenuto che non esisteva <<in tutto il mondo giovane più bello del principe di Galles>>, e un altro osservatore si era spinto ancora oltre: <<Se si dovessero mettere in fila i nomi di tutti i principi definiti belli, quello di Enrico starebbe al primo posto>>. Coloro che avevano amato Enrico VII ora ne adorvano il figlio. Le ballate popolari del tempo sul principe Hal raccontano che al ragazzo piaceva indossare panni rozzi per mescolarsi alla gente comune e tuttavia veniva invariabilmente scoperto, riconosciuto e ricondotto in trionfo al palazzo, circondato da fedeli sudditi esultanti. 

Le sorelle di Enrico VIII, le zie di Maria, non sarebbero potute essere più diverse. Margherita di due anni maggiore di Enrico, er aun'energica e sveglia adolsecente di quattoridici anni quando il padre l'aveva data in sposa a Guglielmo IV di Scozia, allora ventottenne e uomo dalle numerose e facili avventuure femminili (mentre si stavano trattando le nozze con la principessa Tudor, la sua bella amnte lady Margaret Drummond era morta in circostanze inspiegate). Margherita aveva sopportato quel matrimonio non voluto, ma non senza lamentarsene: afflitta dalla nostalgia e umiliata dal marito, aveva inviato pietose lettere al padre. La morte di Giacomo IV a Flodden l'aveva liberata da un'infelice unione, ma un secondo matrimonio con il conte di Angus aveva portato a un altro conflitto e infine a una guerra civile. Ormai era diventata una gorssa matrona dai tratti appesantiti, ma era una donna di mondo, autunoma e autorevole. 

Se Margherita era stata poco felice e poco fortunata nella vita domestica, probabilmente la sorella più giovane Maria, era stata la principessa più invidiata della sua generazione. I ritratti esistenti confermano l'unanime opinione dei contemporanei circa la sua straordinaria bellezza. La fronte alta e liscia, i lineamenti delicati erano messi in risalto da una carnagione così chiara che rasentava il pallore. A differenza di Enrico, Maria aveva gli occhi e i capelli scuri, e un'espressione di dolcezza e docilità. Era comunemente dotata di una forte volontà, e la consapevolezza di essere fra le più ambite nobildonne europee le aveva dato fiducia in sé. Aveva acconsentito a sposare l'anziano re francese Luigi XII (dopo la rottura di un precedente fidanzamento con Carlo di Castiglia, il futuro Carlo V), ma in cambio aveva negoziato la libertà di scegliersi da sola il marito successivo. Tuttti sapevano che la sua scelta sarebbe caduta su Charles Brandon, amico intimo di Enrico, e ala morte di Luigi, avvenuta poco dopo il matrimonio, era stato proprio Brandon a venire inviato in Francia per consolare la giovanissima vedova; i due senza perdere tempo, si sono sposati segretamente mentre si trovavano ancora lì. Enrico era andato su tutte le furie, ma amava troppo la sorella e l'amico per proibire loro di tornare a corte. La sua vendetta era consistita nell'appropriarsi dell'argenteria e dei gioielli di Maria e nel costringerla a ripagargli le spese del costoso matrimonio con Luigi. 

Gli antenati inglesi e spagnoli della principessina Maria erano uomini e donne ricchi di iniziativa, combattivi, coraggiosi, indipendenti. Anch'ella avebbe avuto tali doti se, per quanto allevata come una principessa inglese, le fu parimenti insegnato a onorare e rivendicare con orgoglio il suo sangue spagnolo. In fin dei conti, a prendersi cura di lei fu a lungo la madre che non parlò mai fluentemente l'inglese e che per tutta la vita, continuò a pregare in spagolo. Come personalità e come spirito Maria avrebbe somigliato sopratutto alla nonna materna, Isabella; ne avrebbe ereditato la tenacia, il coraggio, il gusto per le lunghe ore di lavoro, la tendenza alla malinconia. E ne avrebbe condiviso anche il desiderio di purificare la fede e raddrizzare la situazione religiosa del proprio paese, ma in circostanze così diverse da quelle della Spagna quattrocentesca da non consentire un confronto. 

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